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All’Unical oggi è il giorno di Mario Martone. Al regista napoletano pluripremiato per il film “Noi credevamo” la Facoltà di Lettere e Filosofia conferirà alle 15 e 30, presso il Teatro Auditorium, la laurea ad honorem in Linguaggi dello spettacolo del cinema e dei media. Ecco un estratto dell’intervista che Martone ha rilasciato al Quotidiano della Calabria domenica scorsa.
Direttore Martone, una Università del Sud che premia un importante autore del Sud. Questo tema, il Meridione, ritorna sempre nella sua opera. È il caso, senza dubbio, di “Noi credevamo”. Quanto è stato difficile raccontare il Risorgimento dal punto di vista del Mezzogiorno, considerato anche il rapporto problematico tra il nostro Sud e l’Unità d’Italia?
«Il film ha avuto una lunghissima gestazione. Abbiamo iniziato nel 2004, superato vari passaggi, incontrato molte difficoltà legate sicuramente anche a un clima di incertezza sul senso fondamentale della nascita del nostro Paese e della sua unità. Per me era fondamentale mettere al centro di questo film sull’Unità d’Italia – un film molto problematico, per nulla celebrativo – il nostro Sud. Vorrei sottolineare che il film prende il titolo e molti spunti narrativi, nonché la vicenda del protagonista, dal libro di Anna Banti, scrittrice calabrese. “Noi credevamo” è un libro in cui la Calabria ha un enorme importanza dal punto di vista non solo del paesaggio, ma anche del carattere del protagonista, delle sue scelte, del suo rapporto con il Nord. Questo calabrese finisce la sua vita a Torino e da lì lui ricorda e rivive tutta la Calabria della sua stagione di cospiratore. Io che avevo un’esperienza personale molto forte con il Cilento, ho spostato lì l’azione dalla Calabria. Non c’è dubbio però che l’origine calabrese è molto sentita (…)».
Quando è uscito il film dalla Calabria qualcuno le ha rimproverato il fatto che la nostra regione sparisse dal film, insieme alla figura di Musolino…
«Lo capisco benissimo. Quella di Musolino è senza dubbio una figura bellissima, magnificamente tratteggiata nel libro. Il film è un elaborato complesso, che ha molti altri argomenti da trattare oltre ai temi ispirati direttamente al libro della Banti. Ci sono delle inevitabili semplificazioni narrative. Detto questo, si tratta di un film che è stato studiato molto rigorosamente. Conosco benissimo l’importanza di Musolino e credo anzi che il film abbia spinto moltissimi lettori a leggere il libro della Banti e a conoscere in maniera approfondita la realtà raccontata nel libro».
Forse poteva pensarci un autore calabrese a raccontare questa storia?
«(…) Credo che la cosa importante sia far ripartire il dialogo tra le energie migliori del Meridione, ognuno dal suo punto di vista. In Calabria ci sono diversi registi, ce n’è uno in particolare che io adoro e che è Gianni Amelio, il quale porta la dimensione della sua Calabria in ogni suo film. Non ha importanza che il film tratti direttamente della Calabria, quello che conta è che dalla Calabria venga fuori un’anima così importante, così internazionale di cui si sente continuamente però l’origine. È proprio il caso di Gianni Amelio. Il suo ultimo film su Camus, “Il primo uomo”, racconta vicende che non solo non riguardano la Calabria ma non hanno a che fare nemmeno con l’Italia: eppure è un film straordinario in cui l’origine calabrese di Amelio risuona in ogni inquadratura. Ed è proprio questo che intendo quando dico che la cosa importante è che il Sud si faccia guida e protagonista al di là dei localismi. Quello che conta è che il Sud riesca a mantenere la propria identità e ad aprirsi al mondo, invece di coltivare localismi che rischiano soltanto di rimanere storie di campanilismo».
Quello di “Noi credevamo” è un racconto comunque piuttosto amaro sul Risorgimento, dove le energie dei patrioti meridionali non vincono. Lei comunque resta fiducioso nel riscatto del Sud?
«Io sinceramente credo che il riscatto del Sud e il suo futuro siano nell’evoluzione democratica. Che significa innanzitutto il superamento della conflittualità che ci divora, che divora tutti i territori del Sud (…) Non mi piace la parola ottimista, ma certo sono molto positivo rispetto alle energie intellettuali, creative, di lavoro che ci sono al Sud. Penso che debbano trovare la maniera per sbloccarle. È come un vulcano ‘tappato’ che ha bisogno di esplodere. È un processo che dovremmo prendere nelle nostre mani».
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