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Ci sono poche ferite che porto della mia esperienza professionale in Basilicata. Finora. Una è stata la crisi con l’Ordine dei giornalisti che decise una sanzione disciplinare al collega Leo Amato (e dunque al Quotidiano) contestando una serie di articoli che, a giudizio dei colleghi, violavano le regole della deontologia professionale.
Un articolo riguardava la pubblicazione di un’intercettazione nell’inchiesta Arpab, un altro la storia di una donna vittima di sequestro di persona, il terzo (il più discusso) l’opportunità di raccontare un suicidio di un ragazzo (maggiorenne) che prima di uccidersi l’aveva annunciato sulla sua bacheca facebook, aperta.
Non ci fu verso di spiegare che:
1)Nel bilanciamento degli interessi di una cronaca giudiziaria c’è il diritto della collettività a conoscere. L’inchiesta Arpab è stato un grande scandalo politico-giudiziario. Perchè bisognava tacere?
2)Che la tutela delle donne non significa non parlare delle tragedie che le riguardano (tra l’altro notizie apprese in conferenza stampa e mai contestate dall’interessata)
3)Che la notizia di un ragazzo che decide di annunciare su Fb il suo suicidio merita una riflessione. Non è paradossale la solitudine che si ha nella piazza più pubblica del mondo?
Molte cose non mi sembravano ortodosse di quella sanzione di un anno fa. Per esempio la contestazione tardiva, a distanza di tempo dalla pubblicazione degli articoli, cumulativa e fatta alla vigilia della spoliazione delle funzioni disciplinari dell’Ordine. Insomma mi sembrò voler colpire una persona e un giornale piuttosto che un comportamento. Forse mi sbaglio. Sono più serena e possiamo anche riparlarne.
Oggi avrei gioco facile ad alzare la voce e dire: quella non era “ammuina” come ci contestarono, avevamo semplicemente ragione. Perchè l’Ordine nazionale dei giornalisti al quale abbiamo fatto ricorso non solo ha riconosciuto la piena legittimità e correttezza degli articoli scritti da Amato, ma ha condiviso i dubbi che avevo posto. In altre parole l’Ordine nazionale si chiede, come io mi chiedevo: ci fate capire nello specifico cosa contestate? A parte qualche confusione giuridica fatta dai consiglieri lucani.
Ma è sull’ultimo punto che vorrei spendere due parole. E’quello che mi interessa di più. Come raccontare un suicidio. Non è mai stato semplice, ne discutevo qualche giorno fa con la collega della Rai, Cinzia Grenci, a proposito del suicidio di Vito Di Canio, all’interno del cinema Due Torri di Potenza. Giusto raccontarlo, opportuno tacere? Non ho certezze. So solo che i simboli sono importanti. E se un ragazzo pubblica la sua foto su FB e annuncia di volersi uccidere, ancora oggi mi interrogo sulla catena delle nostre solitudini. Abitiamo il racconto della realtà scrive Giuseppe Granieri, indignato dall’approssimazione con la quale i giornalisti svolgono il proprio lavoro salvo a darsi da fare quando sono in cassa integrazione. Crudelissimo, ingiusto. Vorrei chiedergli in questo caso qual è il reale e come l’avrebbe raccontato.
Mimmo Sammartino, il presidente dell’Ordine dei giornalisti, commenta l’uso dei social nel suo fondo sulla Gazzetta del mezzogiorno: twitter non mette a posto le strade ma può salvare una vita. Condivido pienamente. Con lo stesso spirito ho manifestato dubbi sull’uso dei social da parte di istituzioni pubbliche a prescindere dai contenuti. Credo che io e Mimmo, in fondo, la pensiamo allo stesso modo. Leggevo di una locandina di un convegno a Potenza che annunciava un dibattito sullo stalking con aperitivo. Proprio così, con aperitivo. Sotto, i simboli di twitter e Facebook. In pratica l’ossesione di creare eventi a tuti i costi. Tra poco anche a un funerale. Ecco, queste cose qui, il trash degno di un film di Garrone, mi mettono in guardia dalle idiozie che accompagnano sempre la scoperta di un nuovo mondo.
Noi giornalisti non siamo più gli unici dententori della conoscenza. E ce ne siamo accorti. Non accetto però la violenza con quale ci viene ricordato a ogni occasione. A sproposito. Federico Ferrazza, vicedirettore di Wired Italia, ha scritto un lungo post sull’autoreferenzialità dei giornali di carta e su tutto quello che si augura tramonti al più presto. Lo condivido in pieno. Ma è monco. C’è una generazione di giornalisti che ha combattuto contro altri giornalisti. E’ stata una guerra civile. Contro un sistema di potere che non ti faceva accedere in una redazione, che regalava alle amanti e ai figli le iscrizioni all’Ordine, che occultava le notizie, che decideva i direttori nelle stanze della politica, che ti faceva scrivere sotto il giornale, in auto, salvo poi a capire che avevi scritto un buon pezzo che meritava la firma di un parruccone che senza ritegno, protetto da un super contratto, metteva nome e cognome sotto il tuo lavoro rapinandotelo. Mi è capitato per anni.
Questa razza di giornalisti aveva già spezzato il monopolio della conoscenza, prima di twitter. Questo i guru di oggi non lo sanno. Perchè appare il giornale di carta e non quello che c’è dietro. E ci sono molti, moltissimi giornalisti, che secoli fa avevano già aperto porte, registratori e abbattuto muri impenetrabili. E’ per questo che ancora rabbrividisco quando ancora oggi qualche collega, al primo pezzo di chi bussa alla porta del giornale, mi chiede: ma glielo firmo? Non so se svolgo ancora una funzione. Di sicuro l’ho svolta, quando gli altri non la svolgevano. E quell’esprerienza mi ha consentito di capire il nuovo mondo senza portarmi dietro nostalgie di potere. A chi ha buona memoria e a chi è onesto nella discussione su che cosa è oggi il nostro lavoro dedico la vittoria del Quotidiano.
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