2 minuti per la lettura
MI raccontano che era molto deluso. Infastidito, seccato. La sua Basilicata non la riconosceva più. L’ultima vicenda giudiziaria lo aveva addolorato. Non riusciva più a difendere l’unicità della sua terra, lui che nel 1971, da presidente del Consiglio, aveva firmato i decreti attuativi per la nascita delle regioni. Chiedo ai colleghi che sono con me in chiesa, nel Duomo: dov’è la sua gente? Dove sono quelli che hanno beneficiato per lunghissimi anni della politica di Colombo?
La riservatezza lucana? Certo, davanti all’ingresso del municipio dove c’è la bara del senatore, una signora mi chiede di accompagnarla all’interno. “Mi vergogno, ci sono troppi uomini”. Ma è lì, è arrivata, a salutare, a dire grazie.
Mi racconta una storia anche il mio amico Peppino D’Ascoli, mi parla di un vecchio ministro democristiano del mio paese, Bernardo D’Arezzo, di quando aspettava Colombo alla stazione di Battipaglia e faceva con lui il viaggio fino a Roma per entrare nelle sue grazie. Ma la storia più commovente mi viene da un collega: mi ha salvato la vita, Colombo, mi racconta. Oggi sarei su una sedia a rotelle, una notte in ospedale ha spinto la mia carrozzina, gli devo queste gambe con le quali oggi sono qui. Quante gambe avrà salvato Colombo? E’ stato solo lavoro?
Io credo che ogni lucano abbia una storia da raccontare. Me ne accorgo dalle foto che mi arrivano, dagli aneddoti, dalla voglia di comporre ognuno col suo pezzettino il racconto di un’epoca. E allora perchè starsene da parte? Passi per i ragazzi che l’hanno insultato sulla piazza del mondo, quella digitale. Questo è fisiologico, addirittura necessario.
E pensando a D’Arezzo mi viene in mente il suo funerale, o uno più vicino alla mia storia professionale, quello di Giacomo Mancini. Lo senti quando c’è il cuore che palpita dietro una bara. Se Colombo avesse avuto la possibilità di scegliere la chiesa dove stare, sono sicura che avrebbe scelto la “sua” chiesa, quella oggi chiusa, la Trinità.
Troppi lutti, questa città, troppe tempeste inattese, questa regione. Mario mi dice che i lucani avevano già saldato il conto: lo hanno reso potente, eleggendolo con i loro voti. Può darsi. Ma forse c’è un altro motivo per il quale oggi metto a confronto la folla della sua piazza e il corridoio non più affollato della sua ultima chiesa. Forse il motivo è in quel suo disappunto, lui verso la sua terra, i suoi eredi e la sua terra verso il suo creatore.
Un rapporto ormai fragile, il rapporto tra le parole della politica e il cuore della gente.
I lutti vanno elaborati. Le eredità vanno coltivate con buone pratiche, i ricordi devono essere bussole. Dove questa regione si è smarrita per dimenticare la memoria di un padre?
l.serino@luedi.it
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA