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POTENZA – C’è anche una lettera nel capitoletto dell’inchiesta sulle spese del Consiglio regionale dedicato a Vito De Filippo. Una lettera ai pm della titolare della rivendita a cui risultano intestate le fatture per l’acquisto di francobolli al centro del “caso”, spedita prima che anche lei finisse sul registro degli indagati con l’accusa di false dichiarazioni aggravate dalla circostanza di aver agito «per assicurare l’impunità» del presidente della giunta.
«Io personalmente non vendo molti francobolli; la vendita è aumentata dall’inizio di quest’anno. Ho alcuni clienti che comprano 100 francobolli alla volta o anche meno, si tratta di qualche impresa di assicurazione e ricordo un’impresa di pulizie». Questo è quello che sosteneva lo scorso 27 novembre Serena Marino. Aggiungendo, dopo aver preso visione delle fatture portate a rimborso dal governatore dimissionario, di non ricordare: «vendite così importanti di francobolli trattandosi di oltre 2.300,00 euro nell’anno 2011»; tantomeno «alcun cliente che abbia acquistato nel complesso un valore così alto di valori bollati».
Sei mesi più tardi la sua versione è cambiata in maniera radicale, all’indomani della pubblicazione proprio sul Quotidiano di una pagina intera dedicata ai sospetti degli investigatori su quei francobolli. Ecco dunque tornarle alla memoria la fornitura in questione mentre al posto degli assicuratori e dei responsabili dell’impresa di pulizie si sono materializzati «funzionari e dipendenti della Regione Basilicata» non meglio precisati.
Quanto all’entità e al fatto che non fosse giustificata dagli acquisti effettuati da Poste Italiane, a novembre aveva dichiarato che «è capitato pochissime volte che il cliente mi avesse chiesto una quantità di francobolli di cui non ero in possesso e ho chiesto a mio padre di prestarmene il necessario; comunque sempre quantitativi nell’ordine di 100 francobolli in media e mai di gran lunga di ordine superiore». Mentre lo scorso 10 maggio è arrivata la certezza che a passarglieli in quelle quantità di molto superiori ai 100, si parla di 4/500 francobolli per ognuna delle 6 fatture contestate, era stato il padre, Francesco Marino titolare di un’altra tabaccheria sempre a Potenza.
Anche quest’ultimo, sentito a sua volta prima a novembre e poi a maggio, ha cambiato versione sul punto. Così dove diceva di non ricordare con esattezza quanti ne avesse ceduti alla figlia («forse qualche centinaio di francobolli ma sicuramente meno di mille») è arrivata l’ammissione di aver «provveduto» a prestargliene «almeno un migliaio di unità per volta».
Ma perché tutto questo? Perché esporsi spedendo una lettera ai magistrati per contraddire un verbale sottoscritto mesi prima? Questo nell’avviso di garanzia gli investigatori non lo spiegano, ma il fatto che l’accusa sia rivolta soltanto a loro due significa che elementi per individuare complici o suggeritori non ne hanno. D’altronde se si parla di false informazioni ai pm con l’aggravante di averle rese per assicurare ad altri l’impunità ci si trova davanti a un caso particolare di favoreggiamento. Perciò a loro basta dimostrare che chi lo ha compiuto avesse «la cosciente volontà di prestare soccorso, attraverso lo sviamento delle attività di indagine e di ricerca, all’autore di un reato precedentemente commesso». Così recita la migliore giurisprudenza in materia. Niente di più. Se poi ci fosse qualcosa di più le accuse sarebbero ben diverse.
Insomma un caso sul caso, nato con la lettera spedita agli investigatori e cresciuto con la convocazione di Marino figlia e Marino padre negli uffici della procura della Repubblica per un secondo interrogatorio. Già allora per entrambi sarebbero partiti gli avvertimenti di rito, quelli che si fanno quando qualcuno viene sentito come persona informata sui fatti ma comincia a dire cose che potrebbero compromettere la sua posizione. Eppure nella loro retromarcia sono stati inflessibili. E non era difficile nemmeno immaginare quello che sarebbe successo.
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