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VA BENE la legge, ma per supportare la nascita e il sostentamento di scuole dell’infanzia richieste dalle famiglie servono i soldi. I vescovi calabresi esprimono perplessità sulla norma con la quale il Consiglio regionale ha regolamentato un settore in continua espansione. Al termine della sessione primaverile della Conferenza episcopale calabra, che si è riunita a Trebisacce ospite del vescovo di Cassano e che ha confermato fiducia al presidente Vittorio Mondello fino alla scadenza del suo mandato di arcivescovo di Reggio, il documento di resoconto dei presuli riferisce che si è deciso “di inviare una lettera agli organismi regionali per chiedere chiarimenti” sul provvedimento regionale approvato da Palazzo Campanella nella seduta del 29 marzo. In sostanza, la legge viene definita “buona in sé”, ma è limitata dal fatto che “non ha alcun supporto economico”.
Il testo, 25 articoli ripartiti in quattro capi, proposto in aula da Nazzareno Salerno, definisce i “criteri di programmazione” e stabilisce i requisiti delle strutture pubbliche e private per avere l’accreditamento. Ma, precisa, tutto questo non comporta oneri diretti per il bilancio regionale. Anche se, come specificato in premessa, “la Regione Calabria promuove e sostiene gli interventi per la qualificazione e lo sviluppo dei servizi socio-educativi per la prima infanzia garantendo la pari opportunità tra bambini, sia in forma singola che integrata, anche attraverso le azioni degli enti locali e valorizza l’autonoma iniziativa degli organismi non lucrativi di utilità sociale, degli organismi della cooperazione, delle organizzazioni dì volontariato, dei privati e delle associazioni familiari”. Buone intenzioni, insomma, ma senza investimenti, come contestano i vescovi.
Secondo i dati nazionali presentati a Roma nell’autunno scorso con il Rapporto di monitoraggio del Piano di sviluppo dei servizi socio-educativi per la prima infanzia, il settore della prima educazione, sotto la pressione delle famiglie, è in sensibile crescita. In termini di servizi offerti, in Italia si è passati da 231 posti di fine 2008 a 287 di tre anni dopo, per una percentuale di copertura nazionale che è salita dal 16,2 al 18,9 per cento, con un’impennata soprattutto nella fascia d’età del nido.
Ma, sottolinea il rapporto, rimangono “alcune criticità”: “una di queste – è scritto – è la diversa distribuzione dell’offerta di servizi nel Paese” e proprio “il divario territoriale tra le Regioni” è uno degli elementi “discriminano ancora fortemente le opportunità di accesso ai servizi da parte di bambini residenti in diverse aree”. Il Sud, che è la zona in cui si registra la percentuale più forte di accessi anticipati alla scuola dell’infanzia, è l’area meno servita. E la Calabria, con una disponibilità che arriva a coprire appena il 6,2 per cento delle potenziali richieste, è al penultimo posto in Italia come offerta di servizi. In sostanza, ogni cento bambini in età da scuola d’infanzia, ce ne sono novantatrè che devono restare a casa. Peggio (4,9 per cento di copertura) fa solo la Sicilia, mentre all’estremo opposto della graduatoria ci sono come l’Umbria,regioni l’Emilia Romagna e la Toscana che raggiungono rispettivamente tassi di accoglienza pari al 31,9%, 31,5%, e 30,1% e come l’Umbria, l’Emilia Romagna e la Toscana che raggiungono rispettivamente tassi di accoglienza pari al 31,9 per cento, 31,5 per cento, e 30,1 per cento.
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