La Procura di Firenze
2 minuti per la letturaVanno tutti a processo gli imputati dell’inchiesta “Vello d’oro” della Dda di Firenze che ruota intorno a un sistema di frodi carosello e riciclaggio che il clan calabrese Scimone avrebbe attuato in Toscana, in particolare tra le aziende del distretto del Cuoio, a Santa Croce sull’Arno (Pisa).
L’inchiesta nel febbraio 2018 portò ad arresti e perquisizioni. Ora, per il cosiddetto “sistema Scimone” il gup Antonella Zatini ha rinviato a giudizio 13 indagati tra cui Antonio Scimone, il suo uomo di fiducia a Firenze Cosma Damiano Stellitano, Giuseppe Nirta (nipote dell’omonimo capo della ‘ndrina di San Luca) e Antonio Barbaro, questi ultimi due operativi in Calabria. Alla sbarra anche Andrea Iavazzo, Maurizio Sabatini, Lina Filomena Lovisi, Giovanni Lovisi, Mario Lovisi, Francesco Lovisi, Nadia Carresi, Marco Lami e Alessandro Bertelli.
Il processo comincerà l’8 ottobre 2019 e tratterà più fatti e accuse – a vario titolo – di associazione a delinquere, riciclaggio e autoriciclaggio, usura, estorsione, esercizio abusivo del credito, frode fiscale, fatture false. Il giudice Zatini ha escluso l’aggravante dell’art.7 “di mafiosità” per alcuni episodi in cui sono accusati imprenditori mentre la medesima circostanza permane per gli altri imputati.
Sempre lo stesso giudice ha emesso una prima condanna, con rito abbreviato, per un quattrordicesimo imputato, Filippo Bertelli – condannato a una pena di 2 anni, sospesa. Prosciolti, per una delle accuse, gli imputati Giovanni Lovisi, Lina Filomena Lovisi, Alessandro Bertelli, Maurizio Sabatini e Marco Lami – perché il fatto non costituisce reato – laddove sono colpiti dall’imputazione di essersi associati con Scimone, Nirta, Stellitano e Iavazzo per commettere un numero indeterminato di delitti di riciclaggio attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti con aziende nel settore conciario.
Imprese che pure erano economicamente sane ma – ricostruiva l’inchiesta – avrebbero trovato vantaggio nel farsi prestare denaro, proveniente da ‘cartierè che di fatto venivano gestite dalla ‘ndrangheta. L’inchiesta della Dda fece emergere che le somme circolate in “Vello d’oro” provenivano sia dalla Calabria sia da conti basati in banche di Slovenia e Croazia. Una volta ripulito in Toscana il denaro avrebbe preso la via di società del Regno Unito, così sottratto al fisco italiano.
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