Lea Garofalo
3 minuti per la letturaCROTONE – Vito Cosco si pente. O, meglio, racconta la sua versione dei fatti sull’omicidio di Lea Garofalo, la testimone di giustizia uccisa e bruciata nel 2009 dal marito Carlo Cosco, fratello minore di Vito, insieme a Rosario Curcio, Massimo Sabatino e Carmine Venturino.
Dal carcere di Opera, dove si trova detenuto per scontare l’ergastolo per il delitto e la distruzione del cadavere, Vito Cosco ha scritto una lettera aperta nella quale afferma: «Non ho giustificazioni per quello che ho fatto: se esiste un aldilà ho bisogno che la vittima continui a disprezzarmi per non aver fatto nulla per fermare quella follia».
Una lettera in cui ripete parole di condanna per quello che hanno fatto nei confronti di Lea, pur limitando il suo ruolo al solo occultamento del cadavere che è stato ritrovato nel 2012 in un capannone di Monza. «La verità – scrive Vito Cosco – è che io sono morto poco meno di dieci anni fa, insieme alla vittima, ma ancora non lo sapevo. Adesso lo so e sono pronto ad accettare qualunque cosa il destino mi riservi».
La ricostruzione del delitto fornita dall’uomo è diversa rispetto a quella giudiziaria: «Ho un fratello più piccolo di me che commise un grave delitto – afferma ancora Cosco – e, a cose già fatte, coinvolse anche me. Mi chiedo come ho potuto oltraggiare un corpo ormai senza vita. Forse è ancora presto per chiedere perdono».
I ruoli secondo la Cassazione
Una teoria diversa dalla sentenza di condanna pronunciata dalla Corte di Cassazione, secondo la quale l’uomo non avrebbe avuto «un ruolo marginale», ma rappresenta «l’alter ego del fratello Carlo col quale ha condiviso le scelte, partecipando alle riunioni organizzative». I due fratelli, è l’esito delle indagini e della sentenza di condanna, furono gli «esecutori materiali» di un omicidio premeditato, per punire la donna che aveva scelto di prendere le distanze dalla ’ndrangheta e dal compagno, andando via da Petilia Policastro, centro del Crotonese dove vivevano e portando con sé in Lombardia la figlia Denise, che ora ha 27 anni ed è divenuta un simbolo del coraggio di ribellarsi alla ‘ndrangheta.
Il cambio dei valori
Vito Cosco aggiunge: «Si può vivere una vita intera e giungere alla fine senza quasi avere rimpianti oppure, come nel mio caso, la fine del nostro ciclo vitale arriva a tutta velocità come una locomotiva impazzita che travolge tutto (…). I miei valori sono cambiati, vorrei che ci fosse un grosso pulsante rosso da poter pigiare e, all’improvviso, il mondo che va all’indietro fino a quel maledetto momento – conclude – quando avrei potuto capire, rifiutarmi e, forse, comprendere quello che stava accadendo e fermarlo».
Il Gruppo della trasgressione
I valori a cui fa riferimento nella lettera, pubblicata da “Il Giorno”, rientrano nel fatto che l’uomo, nel corso della sua detenzione, si è avvicinato al Gruppo della trasgressione, un’iniziativa creata 21 anni fa dallo psicologo Angelo Aparo per il recupero di detenuti attraverso l’auto-percezione delle proprie responsabilità.
La reazione di Marisa Garofalo
La lettera di Vito Cosco ha provocato una dura reazione da parte di Marisa Garofalo, sorella di Lea, che sui social ha definito l’uomo come «vigliacco assassino», chiedendosi poi quali sarebbero i valori che sono cambiati per lui. In passato Marisa Garofalo ha anche accusato le istituzioni di avere abbandonato la sorella (LEGGI).
«Non ci sarà mai perdono per quello che avete fatto – ha aggiunto Marisa Garofalo – avete commesso un crimine con tanta ferocia nei confronti di una povera donna indifesa. Dovete rimanere dietro le sbarre e non vedere mai la luce del sole, fino a l’ultimo respiro, anche se nessuno ci darà indietro mia sorella, ci avete distrutto la vita. Rimarrete sempre dei vigliacchi assassini».
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