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COME ci siamo ridotti. Succubi e nello stesso tempo portatori – non sempre sani – di parole effimere come molti aspetti dei nuovi modi di comunicare. È da anni, ormai, che ogni estate, puntualmente, i calabresi vengono umiliati dalla presenza di indicibile sporcizia nelle acque di molte zone di mare. Cloache che si spostano su e giù per le coste, guidate dalle correnti marine, impedendo a turisti e residenti di fare il bagno e, soprattutto, facendo allontanare dall’immagine della Calabria il tassello ormai sbiadito del mare incantevole. La gente, quest’anno, è letteralmente scappata da alcune località della regione che erano state scelte come meta delle vacanze. Gli stessi calabresi, tante volte, hanno dovuto turarsi il naso per l’indecoroso spettacolo. Eppure, nonostante da anni si parli della necessità di cercare di invertire la rotta, nonostante decine di inchieste giudiziarie, nonostante prese di posizioni responsabili di alcuni sindaci (come quello di Lamezia, che ha chiesto aiuto alle altre istituzioni dello Stato per combattere chi sporca e inquina), niente da fare.

Siamo alle solite: i giornalisti sono mascalzoni perché dicono che il mare è sporco. Come se le decine e decine di segnalazioni fotografiche fatte da cittadini e vacanzieri inorriditi per le schiume marroni in acqua fossero frutto di allucinazioni. Ci sono stati, anche quest’anno, mugugni da parte di altri amministratori che si ostinano a credere che i turisti (oltre che gli stessi cittadini amministrati) siano tutti scemi e che, pertanto, non si deve dare notizia del mare sporco, come se il problema fosse solo frutto di parole, piuttosto che della loro stessa inadeguatezza o di quella degli amministratori di altri comuni sulla stessa costa, giacché – lo capirebbero pure i passeri di montagna – se un sindaco sa far funzionare il depuratore del suo comune non è detto che il “suo” mare sia indenne dalla sporcizia che viene da più su o da più giù.

Eppure si intravede la possibilità di un uso più efficace delle parole: perché non si parlano, i sindaci, e cercano insieme una soluzione (bussando alla Regione, alle Procure, alle Prefetture) perché questa estate possa essere archiviata come l’ultima della melma galleggiante in riva al mare? Una banalità? Una ipotesi semplicistica? Ci provino, visto che le cose semplici qualche volta portano risultato. Le parole circolano a ritmi di milioni al secondo su tutti questi bellissimi mezzi di comunicazione di cui disponiamo. Ne siamo sommersi, ci tolgono l’ossigeno, la capacità e forse anche il tempo di soffrire.

Da tanto tempo, ormai, le polemiche – accese solo dal folclore – tra personaggi di primo piano della politica nazionale (e sarebbe riduttivo far rientrare nel novero solo i big della Lega oggi in mano a Salvini) ci hanno stordito e ci hanno fatto pensare al fenomeno delle migrazioni come ad una questione simile alle quote latte o alla svalutazione dell’euro. E oggi a stento ci accorgiamo dell’ecatombe che ci sta passando sotto il naso. Facciamo finta di scandalizzarci dell’ovvio (anche a Roma c’è la mafia! No, davvero?), ci appassioniamo ai tentativi goffi di fare apparire questo Paese quello che non è, ci schieriamo dall’una o dall’altra parte quando, come ha scritto qualche giorno fa su questo giornale il professore Isidoro Pennisi, sul pulpito di mamma Tv sale il superesperto di turno per dissertare vacuamente di questo o di quello.

Cinquanta migranti che all’arrivo in Italia erano diventati solo 50 cadaveri nella stiva di una delle centinaia di navi che qualche troglodita italiano vorrebbe affondare? E vabbè… come se si trattasse di pecore morte nell’incendio di un ovile. È questo che fa impressione, che dovrebbe allarmarci. Di fronte a queste centinaia di morti siamo capaci, al massimo, solo di sentimenti tiepidi. E diventiamo roventi se, invece, dobbiamo schierarci pro o contro le ultime stupidaggini di chi, in Tv o in Parlamento, pensa di cavalcare i malesseri della gente. I politici sono tutti ladri. Due bambini sono stati fatti morire in mare dagli scafisti. La prima affermazione, ormai buona per tutte le occasioni, riceverebbe consensi incondizionati. La seconda lascerebbe i più indifferenti. Come ci siamo ridotti. Il potere delle parole è diventato il peggiore anestetico della nostra coscienza, già fiaccata dalla sempre crescente incapacità di tornare ai pensieri. Il fenomeno dei migranti fa notizia solo per la paura che “quelli lì” possano venire qui a darci fastidio. E basta. Eppure “quelli lì” pure sono fatti di carne, hanno le lacrime dello stesso sapore delle nostre, se arrivano vivi sono capaci di sguardi pieni di speranza e di riconoscenza, puzzano esattamente come puzzerebbe uno di noi se solo fosse costretto a fare un viaggio in mare in quelle condizioni, tanto per intenderci.

L’ultimo mal di denti che abbiamo avuto, quello che quasi ci faceva impazzire dal dolore? Identico a quello che viene a “quelli lì”, con la differenza che noi scappiamo dal dentista e magari a “quelli lì” è venuto in mezzo al mare poche ore dopo aver visto annegare decine di compagni di viaggio. Fermo restando che la complessità della questione richiede una gestione sovranazionale di portata straordinaria, la cosa che fa male è che ci siamo ridotti come le capre. Anzi no, perché le capre di certo non conoscono l’ipocrisia (perché fa comodo che nei campi e nei cantieri più pericolosi ci vadano gli immigrati, o nei laboratori artigianali in sottoscala del Veneto o della Toscana, tanto per non far torto a nessuno). Le parole a fiumi, sostenute da urla e scompostezza, si stanno trasformando, stanno diventando tarli ghiotti di intelligenza e di cuore. Non si tratta solo dello sterminio di “quelli lì”, per il quale dovremmo riappropriarci della nostra dignità di esseri umani quantomeno per piangerli. L’ipnosi delle chiacchiere ci impedisce di mettere a fuoco i problemi, a vantaggio della voglia matta di blaterare, di gonfiare il petto per apparire ciò che non siamo più, salvo poi afflosciarci come palloncini sgonfi in balìa delle stupidaggini.

“I politici sono tutti ladri”, e lo gridiamo con fierezza al bar o dal barbiere, e godiamo dell’illusione di esserci puliti la coscienza di cittadini provetti. Magari nel porto della nostra città è arrivato l’ennesimo gruppo di migranti con i cinque o sei morti nella stiva, e facciamo finta di niente, tanto è una cosa che non ci interessa, e magari non ci viene il sospetto che forse non siamo più capaci nemmeno di piangere. Anziché ridere, quando sentiamo che Franco Corbelli vuole fare in Calabria un cimitero per i poveri migranti, dovremmo tacere per qualche minuto e pensare. Poi possiamo anche decidere di continuare a ridere di scherno, per lo meno lo abbiamo deciso noi, con la nostra testa. E da soli. Ci pensate quanto ne guadagneremmo? Rocco Valenti

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