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FINALMENTE il Governo ha nominato il commissario per la disastrata sanità calabrese. Non è il governatore Oliverio, come lo stesso avrebbe voluto e come per certi versi sarebbe stato auspicabile (perché se ne potesse assumere piena e diretta responsabilità), ma Palazzo Chigi ha comunque cessato di essere inadempiente (di questo si trattava) e il nuovo commissario per il piano di rientro, Massimo Scura, peraltro calabrese di origine, nelle prossime ore sarà al lavoro con le migliori intenzioni. 

Ovviamente non è un capitolo archiviato, perché le lacune dell’assistenza sanitaria nella regione sono talmente gravi che non è possibile allentare l’attenzione sul settore, anche perché, è bene ricordarlo, tanti guasti accumulati negli anni sono legati al groviglio di interessi politico-clientelari che nelle pieghe della sanità è lievitato fino a scoppiare, lasciando conti da sanare col rischio, tutt’altro che teorico e remoto, che le esigenze di bilancio intacchino l’efficienza del sistema di tutela per i cittadini. Come in realtà sta già accadendo da tempo. 

Dalla sanità alla corsa per non perdere i fondi europei, da quest’ultima al lavoro: si passa da un’emergenza all’altra, e per ognuna di esse si fa ricorso spesso ai numeri. Statistiche di ogni sorta e ogni provenienza ricalcano il quadro fosco della situazione calabrese. È successo così anche nella settimana appena trascorsa. Eppure si corre il rischio che i numeri (ai quali siamo forse assuefatti) facciano perdere il contatto con una realtà profonda, quella delle persone, fatta di emozioni, sentimenti, sofferenze. Si potrebbe pubblicare un volume con migliaia di pagine per descrivere la disoccupazione in Calabria, anzi la disoccupazione senza latitudine. Non si riuscirebbe, però, a esprimere quello che Giovambattista è riuscito a fare con una lettera al Quotidiano che abbiamo pubblicato giovedì 12 marzo. Quella di Giovambattista è la storia di un trentenne della provincia di Cosenza, con “poca scuola”, come dice lui, e senza lavoro, e potrebbe essere identica a quelle di altre decine di migliaia di suoi coetanei. C’è poco da commentare: «Sono disoccupato. Praticamente, per avere un euro dovrei chiederlo a mia madre. Lei spesso mi chiede se ne ho bisogno. Io dico quasi sempre no. Mi vergogno. Quando trovo 5 o 10 euro sul comodino, li lascio lì per alcuni giorni. Poi li prendo perché mia madre si mortificherebbe più di me. Che cosa provo? Una umiliazione, mi sento un fallito, un uomo che ha perso la sua dignità, un mantenuto. 

Anche per questo motivo, posso dire di non conoscere la piazza del mio paese. Ogni tanto l’attraverso senza fermarmi». Giovambattista passa le sue giornate nella piccola campagna del nonno (vorrebbe ingrandirla, ma con quali risorse?), e poi, di sera, confessa, gli si “spegne il cuore”. Ha lavorato, nella sua vita, Giovambattista: «Ho assaggiato il piacere immenso di fare regali: portare a casa barattoli di Nutella, comprare qualche cosa che potesse fare la gioia di mia madre e delle mie sorelle come pure un’auto usata e prima ancora una moto e un cavallino che ho visto crescere sotto i miei occhi. Ho venduto cavallo e moto e rottamato l’auto. Sono a piedi». E poi: «Ogni giorno mi domando che ci faccio sulla terra, soprattutto se penso che i miei genitori alla mia età erano sposati ed avevano messo al mondo me. Io, questo passo quando potrò farlo? Qualche volto sento la lamentela per i “cervelli in fuga”, loro scappano e va bene. Io non posso neanche scappare e neanche vorrei andare via dalla mia terra… Mi è rimasta una cosa sola: la dignità e la fuga dai brutti vizi e dalle male compagnie». 

Proprio nel giorno in cui davamo notizia delle iniziative della Regione per cercare di dare una chance di lavoro ai troppi giovani calabresi che ne sono privi, Giovambattista così concludeva la sua lettera: «Caro Direttore, si è fatta un po’ l’idea di che cosa è la disoccupazione? Io, sì: una bestiaccia che distrugge l’onore di un uomo, brucia i suoi ideali e consuma senza recupero i suoi giorni. Non chiedo niente a nessuno, non credo nella raccomandazione e negli appoggi esterni, vorrei credere nella buona fede di coloro che ci governano perché al di là della disoccupazione possano farsi l’idea che esistono i disoccupati, persone come me e tante altre messe ancora peggio. Grazie per l’attenzione». Grazie a lei, Giovambattista, per averci ricordato che disoccupazione e disoccupati sono “cose” diverse. Che, anzi, i disoccupati non sono affatto cose. E le chiedo scusa a nome di tutti quelli che di fronte alla sua lettera hanno fatto finta di niente.

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