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SE uno non è della zona, avendo letto più volte il cartello “Laghi di Sibari”, pensa di esserci arrivato. Il lago è perfetto, sebbene sia troppo geometrico con la sua grande forma ad L. Ancora per qualche giorno i turisti, volendo, possono visitarlo. Lo faranno a loro rischio e pericolo perché il fango che circonda i viali che lo delimitano sono scivolosi come neanche una strada ghiacciata. Poi, tra qualche giorno – domani, dopodomani – non vedranno più il lago bensì una strana massa di fango che addolcirà il profilo delle antiche pietre. Perché questo non è uno dei laghi di Sibari, è Sibari. La vergogna della Calabria. Da ragazzo non sapevo neanche che esistesse la Calabria. Ora, riandando indietro con la memoria, mi rendo conto che la prima parola ascoltata, che si riferisse alla Calabria, era “sibarita”. La pronunciò un mio coetaneo, più erudito, a proposito dei giochi erotici che si facevano a quell’età. Un’estensione un po’ terra terra, per intenderci, di un termine che invece evoca il lusso e i piaceri raffinati di cui erano particolarmente amanti gli abitanti di questa città, la prima colonia della Magna Grecia. Un aggettivo che conoscono e usano a Los Angeles come a Tokyo, a Melbourne come ad Amsterdam. Che poi fosse davvero meritato e non ci fosse lo zampino di Pitagora, che aveva la sua scuola nella vicina e nemica Crotone, è da dimostrare. Sicuramente i crotonesi di allora, che, nel 510 a.C., al termine di una guerra sanguinosa, rasero al suolo la città e deviarono il corso del Crati per coprire di acqua le rovine, oggi sarebbero felici: un’altra sventura ha ricoperto, sempre con le acque del Crati, i resti di quella città, che non sono stati amorevolmente protetti.
Le idrovore del Consorzio di Bonifica e dei Vigili del fuoco sono alacremente all’opera, ventiquattro ore su ventiquattro. Lentamente il livello dell’acqua si abbassa come si capisce dai tubi che la prelevano: nella parte emersa aumenta il tratto bagnato. Nel grande spazio dell’anfiteatro, l’emiciclo diventa sempre più visibile, ma ce ne vorrà di tempo prima che ricompaia interamente. I corridoi pensili, che normalmente sono serviti ai visitatori per osservare da vicino i resti, sembrano i pontili di un porto turistico. In questo mare d’acqua fluviale è un po’ arduo immaginare Smindiride che si doleva delle piaghe sulla schiena, procurategli dal giaciglio di petali di rose su cui riposava mollemente. E’ difficile avere qualche informazione più precisa dal tabellone che riporta la pianta delle vecchia città, dal momento che i testi esplicativi sono illeggibili per lo stato del manufatto, che avrebbe richiesto da tempo un po’ di manutenzione.
I tecnici del Consorzio di bonifica dei bacini dello Jonio cosentino, Oddone Levati e Benito Scazziota, mi mostrano dove va a finire l’acqua prelevata dalle idrovore. I canali artificiali sono in perfetta efficienza, i livelli risultano nella norma, ricevere l’enorme quantità d’acqua, che riempie la “piscina” dell’antica Sibari, è un’operazione priva di complicazioni. Le preoccupazioni sono altre. Che cosa si troverà nell’area, ora sommersa, quando l’acqua sarà stata completamente estratta? Sicuramente fango, tanto fango. Sarà un’impresa eliminarlo non solo per la sua quantità quanto soprattutto per il valore delle pietre da ripulire. E poi si dovrà verificare quanti e quali danni prima la violenza dell’acqua e poi la permanenza del fango avranno provocato. Non parliamo di costi, perché è evidente che il prezzo da pagare sarà alto, ma può esserci un prezzo proibito se lo scopo è recuperare un pezzo di storia che vale per chi vive in questi luoghi e per l’umanità intera?
Mi faccio spiegare le cause di questo disastro, che non può essere attribuito al fatto che l’antica Sibari si ritrovi ad un’altezza rischiosa rispetto al livello del mare non molto lontano: la vecchia città, trovandosi tra il Crati e il Coscile, aveva un porto fluviale che risultava strategico su una costa con scarsi ripari naturali. La prima è la presenza di idrovore – dovrebbero essere sei – non adeguate a smaltire una massa d’acqua delle proporzioni di quella che l’ha investita. Subito messe fuori uso? Forse dovevano essere più potenti in vista di eventi eccezionali sempre possibili? Probabilmente dovevano essere di più? Si capirà meglio quando si faranno gli accertamenti.
Ma è la seconda causa, che poi è la prima, a raccontarci come vanno le cose a queste latitudini. Si trova ad un centinaio di metri da qui, è il fiume Crati che ha rotto gli argini e ha inondato con un impatto violentissimo l’intera area. Se fosse accaduto sulla riva opposta, oggi forse avremmo contato danni non solo alle cose ma anche agli uomini. La pioggia è stata sicuramente eccezionale – «un venticinque per cento – dice Scazziota -di quella che cade nell’intero anno» -, ma, se la manutenzione degli argini fosse stata quella che serve, non ci sarebbe stata frattura. E se ci fosse stata, allora sì si sarebbe dovuto parlare di un fatto straordinario, perché neanche una corretta sistemazione delle protezioni del fiume avrebbe retto. Né si poteva – mi raccontano – dare uno sfogo a valle, intervenendo sulla diga di Tarsia perché si trova in una curva e le conseguenze, peraltro, potevano essere disastrose per i territori confinanti. Sulla riva stanno sistemando masse di terra per rifare l’argine che è stato travolto. Intanto, dalla stalla i buoi sono già scappati…
Perché il Crati è diventato così fragile? Perché gli argini non sono stati controllati e potenziati? Perché non si attua una politica di tutela dei fiumi che sono una risorsa del territorio e non già un fattore di rischio? Vedendo questo spettacolo, viene naturale chiedersi che cosa abbia fatto la Provincia di Cosenza, che cosa abbia fatto la Regione, che cosa abbiano fatto i comuni attraversati dal fiume. Speriamo solo che, oltre al rituale allagamento di dichiarazioni, non si debba assistere al solito rimballo di responsabilità. Esse sono trasversali, come tante cose in questa regione. Per saghe e manifestazioni ci sono tempo e risorse, per fare le cose che servono davvero c’è poco del primo e quasi niente delle seconde.
Sibari trasformata in una piscina, diciamo un laghetto, diventa così la metafora della Calabria. Dovrebbe essere il suo fiore all’occhiello. I tanti progetti che l’hanno interessata e che non sono stati attuati, e anche la mostra di suoi reperti, che di recente è stata fatta al Parlamento europeo di Bruxelles, sono belle intenzioni. Mi hanno raccontato del tentativo di coinvolgere Carlo Rambaldi, il creatore di Et recentemente scomparso, nella realizzazione di un museo virtuale che riproducesse con effetti speciali la vita a Sibari, una metropoli per quei tempi che sarebbe arrivata ad avere ben trecentomila abitanti. Un sogno. Quest’acqua fangosa, purtroppo, non consente fughe nell’immaginazione. Bisognerebbe piuttosto che questa vergogna, che davanti a questo pietoso spettacolo si prova, servisse a qualcosa. E, secondo voi, cambierebbe qualcosa se gli attuali presidenti della Regione e della Provincia di Cosenza si scambiassero i ruoli?
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