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Nuova istanza dei difensori del governatore al gip per la revoca del divieto di dimora

POTENZA – Anche la Cassazione, per la fretta, può inciampare.
E’ quanto commentano, a denti stretti, gli addetti ai lavori, il giorno dopo il deposito delle motivazioni per cui la Corte ha disposto una nuova udienza davanti al Tribunale del riesame di Potenza sulle accuse al governatore Marcello Pittella sui concorsi truccati nella sanità.
Sono diversi, infatti, i punti interrogativi aperti nelle 18 pagine con con cui il presidente della V sezione, Grazia Miccoli (già addetto alla segreteria generale del Consiglio superiore della Magistratura), ha accolto il ricorso presentato dai legali del governatore, i professori Franco Coppi e Donatello Cimadomo, contro l’ordinanza che a fine luglio aveva confermato gli arresti domiciliari disposti 3 settimane prima dal gip di Matera, Rosa Nettis. Interrogativi da cui nei prossimi giorni dipenderà la revoca del divieto di dimora per il governatore, che è anche sospeso dall’incarico per effetto della legge Severino, o la conferma della misura cautelare a cui resta sottoposto, solo “attenuata” a settembre per la chiusura delle indagini e il venir meno del rischio d’inquinamento probatorio.
GLI ATTI “STRALCIATI”
Il primo è senz’altro quello costituito dalle lacune in tema di indizi a carico di Pittella che si sono aperte nelle motivazioni del Riesame, nel momento in cui la Cassazione ha bocciato il richiamo integrale effettuato, «per la completa disamina dell’attività d’indagine» dal loro estensore, il presidente del Tribunale Aldo Gubitosi, all’ordinanza “madre” del gip: «in modo che essa costituisca parte integrante della presente». Uno stralcio deciso d’iniziativa dai giudici del “Palazzaccio” sulla base di un orientamento recente dei colleghi della VI sezione (marzo 2018), senza alcun rilievo in tal senso formulato dai difensori, che ha lasciato automaticamente “scoperti” proprio gli aspetti fondamentali della vicenda, dati per acquisiti dal Riesame in quanto già trattati dal gip, benché oggetto di specifica contestazione dei legali.
«A questa Corte non è consentito (…) integrare o correggere la motivazione del provvedimento impugnato attraverso il riferimento alla motivazione dell’ordinanza applicativa della misura cautelare stessa». Così i magistrati di Trastevere, che si sono astenuti anche dall’esame delle rare intercettazioni telefoniche citate dal Riesame, sempre perché le altre erano state già ampiamente trattate nell’ordinanza del gip.  
«La ricerca del valore indiziante delle conversazioni – aggiunge la Cassazione – non può essere compiuta in sede di legittimità, tramite una lettura delle trascrizioni delle conversazioni».
LE LACUNE
Il risultato, pressoché inevitabile, è stato che l’ordinanza del Riesame, presa singolarmente, è risultata mancante rispetto all’«obbligo motivazionale», e caratterizzata dalla sottolineatura di «una serie di elementi indiziari, come indicati anche nell’ordinanza genetica, omettendo una reale e autonoma valutazione critica di tali elementi (…) e sostanzialmente aggirando le obiezioni difensive, sulla cui fondatezza non spetta certamente a questa corte esprimersi, neppure facendo ricorso – ribadiscono i giudici – a una lettura integrata». Di qui la censura, anche a livello stilistico, per la genericità di una «una serie di affermazioni che non superano il confine meramente congetturale», perché effettivamente sganciate dalla riproposizione di tutti gli elementi a loro sostegno, e le «letture “probabilistiche” del ruolo di Pittella».
LA LISTA VERDE
L’esempio più eclatante è quello riferito al concorso per l’assunzione di 8 funzionari di categoria protetta all’Asm, con l’«attribuzione al Pittella della cosiddetta “lista verde” dei raccomandati», e la ricostruzione dell’incontro con l’ex direttore amministrativo dell’Asm, Maria Benedetto, avvenuto nella residenza di Lauria del governatore, in cui quest’ultimo, secondo il Riesame: «con ogni probabilità, veniva informato dalla Benedetto proprio della insufficienza delle votazioni riportate dai candidati della cosiddetta lista verde».
Nell’ordinanza annullata dalla Cassazione non viene ripetuto il contenuto delle intercettazioni in cui la Benedetto prepara la “lista” spiegando a una collaboratrice che «quelli verdi sono di Pittella», e poi spiega all’ex commissario Pietro Quinto la stessa cosa, concordando di andare di persona a Lauria per sottoporgli i punteggi ottenuti dai “suoi” nella prova scritta. Non viene contestualizzata, come fatto in precedenza dal gip, nemmeno un’altra intercettazione, immediatamente successiva all’incontro a Villa Pittella, in cui Benedetto rassegna a Quinto l’accaduto e gli spiega di dover effettuare dei «correttivi», per poi tornare in ufficio e rimettere mano alla graduatoria provvisoria della selezione “incriminata”, sotto l’occhio delle telecamere nascoste dalla Guardia di finanza. Ne si citano, ovviamente (perché giudicati superflui anche dal Riesame), l’interrogatorio di garanzia in cui Benedetto ha riconosciuto la paternità di quelle raccomandazioni («avevo messo un puntino io personalmente. Avevo mosso un puntino verde (…) Su quelli che mi aveva detto Quinto, eh sarebbero state le persone gradite a Pittella. Diciamo “gradite”. Un puntino avevo messo io verde»), o, ancora, l’acquisizione di un’altra “lista verde” (riferita a una selezione successiva) scopertadurante le perquisizioni nell’archivio di una dipendente Asm, che ha confermato i sospetti degli inquirenti.
 Così per la presidente della V sezione, che ha sostituito nella scrittura della sentenza la relatrice Caterina Mazzitelli, anche l’associazione “lista verde” – Pittella diventa «congetturale».
Toccherà quindi al Riesame tornare sulla questione, ed eventualmente rimettere assieme certosinamente tutti i pezzi del puzzle, per motivare la sua seconda decisione sul ricorso dei legali di Pittella, adeguandosi ai criteri dettati dai giudici della Suprema Corte. Sempre che di qui a 10 giorni il governatore non abbia già ottenuto la revoca del divieto di dimora dal gip, a cui ieri è stata presentata un’istanza in tal senso.
D’altro canto il collegio potentino, riprendendo in mano la vicenda, non dovrebbe avere difficoltà nel rispondere a un altro degli interrogativi aperti dalla pronuncia della Cassazione, rintuzzando il furore delle veementi critiche al suo operato.
ABUSO O FALSO?
Si tratta di quello, sempre sul tema dei gravi indizi di colpevolezza a carico di Pittella, dell’atteggiamento psicologico attribuito al governatore rispetto ai reati che gli sono contestati e alle doglianze dei suoi difensori per l’addebito di una sua presunta istigazione in forma indeterminata («implicita o esplicita») dei commissari delle selezioni truccate a favorire i suoi raccomandati.
Per i magistrati romani il Riesame, nell’ordinanza annullata, avrebbe attribuito a Pittella il «dolo eventuale» rispetto sia alla falsificazione delle graduatorie che agli abusi d’ufficio commessi dai commissari per pilotare l’esito dei concorsi finiti nel mirino dei pm («La condotta di istigazione viene ascritta al ricorrente a titolo di dolo eventuale»). In pratica Pittella non avrebbe voluto avvantaggiare ingiustamente nessuno, ma avrebbe soltanto accettato il rischio che qualcuno dei commissari lo facesse, anche facendo carte false, raccogliendo le sue raccomandazioni. Per questo evidenziano che «per la configurabilità dell’elemento soggettivo del reato di abuso d’ufficio è richiesto che l’evento sia voluto dall’agente e non semplicemente previsto e accettato come possibile conseguenza della propria condotta».
«E’ del tutto ovvio – aggiungono – come tutto ciò finisca per riverberarsi anche sull’elemento soggettivo riferito al reato di falso ideologico, considerata la evidente strumentalità nella vicenda in esame di tale reato rispetto alla condotta in ufficio».
L’EQUIVOCO
Peccato che nell’ordinanza annullata il riferimento al «dolo eventuale», come pure all’istigazione «implicita o esplicita» dei commissari dei concorsi, sia limitato espressamente all’unico capo d’imputazione per un altro reato, peraltro più grave: quello di falso. Mentre sulle due contestazioni per abuso d’ufficio il Riesame sostiene perentoriamente che «nessun dubbio è possibile (…) sulla consapevolezza e sulla volontarietà delle condotte ascritte al ricorrente con riferimento alla manipolazione delle procedure del concorso». Quindi avrebbe agito proprio con quella precisa volontà di agevolare i suoi raccomandati evocata dalla Cassazione. Fin qui l’abuso d’ufficio. Poi avrebbe accettato il rischio che per assecondare le sue indicazioni i commissari di gara falsificassero le carte, dal momento che c’era una graduatoria da ritoccare. Dunque il falso e il riferimento al dolo eventuale («accettava il rischio che i commissari, per adeguardi al suo volere e in presenza di votazioni dei raccomandati ampiamente al di sotto della sufficienza, alterassero i punteggi assegnati»).  
Un equivoco  di facile risoluzione, insomma. D’altronde è normale una svista durante la redazione di una sentenza in tempi record (meno di 3 settimane quando per un deposito in Cassazione – anche in caso di detenuti in carcere – possono volerci fino a tre mesi). Lo stesso Riesame, a fine luglio, aveva fatto prestissimo, depositando dopo soli 15 giorni (rispetto all’identico termine di legge di un mese), e una consuetudine che tende ad aggiungervi qualche settimana.

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