La sede della Procura di Firenze
2 minuti per la letturaFIRENZE – La procura della Repubblica di Firenze ha chiuso le indagini e chiesto il rinvio a giudizio per i 14 indagati dell’inchiesta ‘Vello d’Oro’, messa a segno tra Calabria e Toscana nel febbraio di quest’anno e collegata all’operazione gemella condotta dalla procura di Reggio Calabria denominata Martingala (LEGGI LA NOTIZIA), che ha messo in luce un giro di usura nel comprensorio del cuoio, nell’Empolese e nel Pisano, e che nel febbraio scorso ha portato all’emissione di 11 misure di custodia cautelare in carcere e 3 ai domiciliari.
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I reati contestati agli indagati sono, a vario titolo, associazione a delinquere, estorsione, usura, riciclaggio e autoriciclaggio.
Ad alcuni degli indagati è contestata anche l’aggravante del metodo mafioso.
Tra gli indagati figura anche Giuseppe Nirta, nipote e omonimo del boss della ‘ndrina ‘La Maggiore’ di San Luca (Reggio Calabria), ucciso nel 1995.
L’indagine ha preso spunto da una denuncia per usura presentata nei confronti di Cosma Damiano Stellitano, imprenditore calabrese trapiantato a Vinci il quale, a fronte di un prestito di 30mila euro, avrebbe preteso la restituzione, il giorno dopo, di 35mila euro, con un tasso d’interesse del seimila percento su base annua.
Dall’inchiesta quello che è emerso è un sodalizio criminale composto da membri delle famiglie calabresi Nirta e Barbaro, tra i quali Antonio Scimone (a cui sono stati concessi recentemente i domiciliari LEGGI), risultato, sempre secondo le indagini della procura fiorentina, al vertice di una rete di società ‘cartiere’ (SCOPRI IL SISTEMA ELABORATO DALL’ORGANIZZAZIONE), con sede anche all’estero, costituite ad hoc per coprire, attraverso fatture false e movimentazioni fittizie, ingenti movimenti di denaro proveniente da attività illecite, come lo spaccio di droga.
Queste società, secondo l’accusa, sarebbero state il mezzo con cui erogare prestiti a imprenditori in difficoltà del settore conciario: prestiti mascherati da acquisti di pellame utilizzati a loro volta dagli imprenditori, alcuni dei quali destinatari della richiesta di rinvio a giudizio, per pagare lavoro nero e al tempo stesso abbattere, attraverso le false fatturazioni, gli utili delle proprie aziende, scaricando sull’Erario il ‘costo’ del finanziamento illecito ottenuto.
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