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Il generale libico Almasri

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Un caso senza precedenti, per la prima volta nella storia repubblicana coinvolto un premier. Una catena di omissioni e ambiguità


Una catena di omissioni, ambiguità, interpretazioni improbabili che coinvolgono i due attori principali di questa vicenda, il governo e la magistratura, in quella zona di frontiera che è da sempre il rapporto tra la nostra giurisdizione domestica e quella del diritto penale internazionale.
Questo è il pasticciaccio del caso Almasri, trafficante e torturatore, ritenuto dalla Corte penale internazionale responsabile di crimini contro l’umanità, e scarcerato e rimpatriato dall’Italia in Libia. Ma questo è anche il pasticciaccio di un’indagine penale senza precedenti, che coinvolge per la prima volta nella storia repubblicana un presidente del consiglio, due ministri e un sottosegretario di peso, e che cade nel cuore di un conflitto durissimo tra politica e magistratura, nel cuore di una riforma della giustizia destinata a dividere i pm dai giudici e a riequilibrare il rapporto tra i poteri dello Stato.

CASO ALMASRI, GLI AVVISI DI GARANZIA


Gli avvisi di garanzia sono pesanti come macigni. Riguardano due reati, come favoreggiamento e peculato, collegati causalmente da una gravità che fa scandalo. Cadono come una scure sul rimpallo di responsabilità tra magistrati, che dispongono la scarcerazione del trafficante addossando la responsabilità al governo, e governo che accompagna in aereo il latitante a casa, tergiversando prima sui motivi, poi invocando ragioni di sicurezza nazionale, infine scaricando la responsabilità sulle toghe.

LA POSIZIONE DELLA CORTE D’APPELLO


Ma non v’è dubbio che, con diverse gradazioni di responsabilità, nessuno dei protagonisti di questa vicenda può dirsi al riparo da censure. La Corte d’Appello di Roma, concordemente con la Procura, ritiene che il mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale non operi senza un parere del guardasigilli, che si configurerebbe come un atto di adozione del provvedimento richiesto. Ma quel parere non c’è, poiché il governo resta inerte e la Procura e la Corte d’appello ritengono di non poter adottare autonomamente una procedura di arresto provvisorio, prevista dall’articolo 716 del codice di procedure penale, nonostante la dottrina sia concorde nel ritenere che i provvedimenti della Corte internazionale siano direttamente esecutivi, anche per ragioni di tutela effettiva, e cioè per impedire che il destinatario del provvedimento si dia alla fuga.


Tuttavia la rinuncia della Corte configura un possibile errore interpretativo non censurabile sotto un profilo penale. L’inerzia del governo invece giustifica l’apertura di un’indagine, in quanto atto dovuto dopo la denuncia presentata dall’avvocato Luigi Li Gotti alla Procura di Roma. Rinunciando a rispondere alle sollecitazioni della magistratura, che gli chiedeva di esprimersi, il governo avrebbe compiuto un’omissione volontaria tale da giustificare l’ipotesi di un reato doloso, il favoreggiamento nei confronti del criminale ricercato. E nel clima di presunta illiceità in cui si sarebbe svolta la condotta del guardasigilli, insieme alla premier e agli altri membri del governo a vario titolo coinvolti nella vicenda, l’accompagnamento di Almasri in Libia con un volo di Stato configurerebbe il secondo reato, il peculato d’uso.

IL LIBICO ESPULSO DOPO LA SCARCERAZIONE

Il libico infatti, dopo la scarcerazione, è stato espulso dal ministro dell’Interno Piantedosi, che ha spiegato il provvedimento con «urgenti ragioni di sicurezza» connesse alla pericolosità del trafficante e alla sua libertà dopo il rilascio a piede libero in Italia.


Resta da chiedersi che cosa sarebbe accaduto se il governo, anziché privilegiare la tattica di un’inerzia ambigua, avesse dato per bocca del guardasigilli un parere esplicitamente contrario alla carcerazione di Almarsi, invocando la sua espulsione in Libia per ragioni di sicurezza. Avrebbe probabilmente dovuto riconoscere il ricatto che dall’altra sponda del mar Mediterraneo veniva mosso con la minaccia di far partire decine di imbarcazioni cariche di migranti. Avrebbe dovuto confrontarsi con la Corte penale internazionale invocando l’esercizio di un diritto di sovranità politica sopra le regole della giurisdizione globale.

Con ogni probabilità una simile scelta sarebbe stata criticata politicamente, ma sarebbe stata immune da qualunque censura penale. Invece il governo ha scelto di muoversi su quel crinale grigio in cui normalmente agisce la diplomazia dei Servizi segreti, e ha cercato di legittimare politicamente un tatticismo da 007. L’esito è stato l’avviso di garanzia, destinato a incendiare un clima già gravido di tensioni.


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