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Bocciato: questo il verdetto della Consulta ha dichiarato inammissibile il referendum sull’autonomia differenziata. Per attuarla bisognerebbe modificare la Carta costituzionale


Autonomia differenziata addio: la Consulta ha dichiarato inammissibile il referendum sull’autonomia differenziata e stabilito che per attuarla bisognerà bisognerebbe modificare la Carta costituzionale. E ha dichiarato ammissibili le altre 5 richieste di abrogazione: Cittadinanza italiana, Job’s Act, Indennità di licenziamento nelle piccole imprese, Contratti di lavoro a termine e Responsabilità solida del committente negli appalti.
Gli 11 giudici riuniti ieri (20 gennaio 2025) in Camera di consiglio hanno sentenziato che «l’oggetto e la finalità del quesito referendario non risultano chiari» perché il referendum «verrebbe ad avere una portata che ne altera le funzioni, risolvendosi in una scelta sull’autonomia differenziata e in definitiva sull’articolo 116, terzo comma della Costituzione».

«Il che – si legge ancora nel comunicato diramato nella serata di ieri dalla Corte – non può essere oggetto di referendum abrogativo ma solo, eventualmente, di una revisione costituzionale» .
Tradotto, vuol dire che sull’autonomia differenziata non si voterà, e che il Paese dunque non si spaccherà. Una certificazione di “morte” per la legge Calderoli, anche se modificata e corretta, non basterà a realizzare il sogno leghista della “secessione dei ricchi”. Nel dicembre scorso la Consulta aveva già bocciato 7 articoli su 11 della legge 86/25 ritenendoli incostituzionali. Ieri il definitivo colpo di grazia: fallito il tentativo leghista di mettere il Nord contro il Sud. Scontenta la Cgil, che avrebbe comunque voluto andare a votare: «Negata la dignità alla volontà dei cittadini».

LA CONSULTA VA AVANTI CON 4 GIUDICI IN MENO

La Camera di consiglio è durata più del previsto: alle 5 della sera, uscendo dal Palazzo della Consulta, sulla piazza del Quirinale, Vittorio Angiolini, rappresentante legale del Comitato promotore del referendum sull’autonomia, si era detto comunque ottimista, quasi sicuro che la decisione dei giudici sarebbe arrivata entro fine giornata.
Il presidente facente funzione, Giovanni Amoroso, aveva posticipato la Camera di consiglio dal 13 al 20 gennaio nella speranza che il Parlamento trovasse finalmente la quadra per la nomina dei 4 posti vacanti. Ma dopo l’ultimo nulla di fatto, ennesima fumata nera di una lunga serie, la Corte si è riunita ieri in formazione ridotta, con undici giudici: il presidente Amoroso; Stefano Petitti; Angelo Buscema; Marco D’Alberti; Giovanni Pitruzzella; Antonella Sciarrone Alibrandi; Maria Rosaria San Giorgio; Patroni Griffi; Emanuela Navarretta; Luca Antonini e Francesco Viganò.

Il palleggiamento dei partiti, la scelta tra i candidati, ha fatto sì che l’organo di garanzia per eccellenza sia stato costretto a riunirsi a ranghi ristretti per esaminare dossier di grande importanza. Basti dire che per cancellare la legge Calderoli sono state raccolte oltre un milione d firme.
Oggi la Camera di consiglio tornerà a riunirsi per nominare il nuovo presidente che resterà in carica per 3 anni. Il Parlamento, in seduta comune, proverà di nuovo a nominare i 4 giudici che completano la composizione della Corte nella speranza che venga raggiunto finalmente l’accordo.
Il presidente Amoroso non attenderà che maggioranza e opposizione si mettano d’accordo sui nomi da proporre in Aula. Nella rosa dei papabili si è inserito l’ex deputato di Forza Italia Roberto Cassinelli, un avvocato. E poiché i magistrati hanno già la loro “quota”, fa notare un esponente di Forza Italia, Cassinelli potrebbe giocarsi le sue carte. Sono in calo le quotazioni del senatore Pierantonio Zanettin e del sottosegretario Francesco Paolo Sisto.
Insomma, nonostante le rassicurazioni del leader di Forza Italia, Antonio Tajani, che non più tardi di ieri si era detto sicuro che l’accordo si sarebbe trovato, il dossier non è stato approfondito e l’intesa non c’è ancora.

I REFERENDUM AMMESSI DALLA CONSULTA

La richiesta di referendum abrogativo della legge 26 giugno 2024, n° 86 – disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione – riguardava l’abrogazione totale.
La precedente sentenza della Corte costituzionale (la n° 192 del 2024) aveva già scardinato il provvedimento, rilevando dei profili di incostituzionalità tali da mettere in discussione l’intero impianto.

Gli altri referendum sui quali si voterà riguardavano il dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana”; l’abrogazione del cosiddetto Job’s Act, ovvero il contratto di lavoro a tutele crescenti e la disciplina dei licenziamenti illegittimi; l’abrogazione parziale della norma che regola i licenziamenti e la relativa indennità in vigore nelle piccole imprese; l’abrogazione parziale in materia di apposizione di lavoro subordinato e infine, la sesta richiesta di referendum abrogativo sulla responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore «per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici».
Temi molto specifici, e dunque non facili da comunicare, ma non per questo meno importanti, a tutela del posto di lavoro, contro la precarietà e per rafforzare le misure contro gli incidenti sul lavoro, una piaga nazionale.

Perché questi cinque referendum, che erano stati spinti dal centrosinistra e dalla Cgil, possano portare all’abrogazione o alla modifica parziale delle rispettive norma servirà il quorum, ovvero portare al voto il 50 per cento del Corpo elettorale.
Al momento appare come una mission impossibile, visto il crescente assenteismo. Sul piano politico, per i promotori non votare sull’autonomia differenziata toglierà appeal alla “primavera referendaria” e renderà questa impresa ancora più difficile.


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