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Milano, 18 gen. (askanews) – “A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?”. Sono parole di Giuseppe Fava, il direttore del mensile “I Siciliani” assassinato dalla mafia nel 1984 a Catania. E’ questo principio etico applicato al giornalismo che ha ispirato l’intera vita di Michele Gambino. Giornalista d’inchiesta tra i più apprezzati, premio Ilaria Alpi per i suoi reportage dall’Afghanistan e scrittore, Gambino ripercorre la sua vita professionale e umana con “Un pezzo alla volta – Storia di un giornalista e del suo tempo” (Manni Editore), un’opera autobiografica di impegno civile che segue i suoi precedenti lavori “Enjoy Sarajevo” e “L’isola”, quest’ultimo scritto con Claudio Fava.
Un pezzo alla volta, indicato tra i papabili del premio Strega dall’autorevole rivista letteraria “Il libraio”, è un viaggio intenso e personale, una narrazione che intreccia alcuni dei momenti più significativi della vita professionale e privata dell’autore. Fin da giovanissimo, nella Catania “profondo sud di Milano”, Gambino si è ritrovato immerso nel giornalismo d’inchiesta: ha affrontato la mafia con quel coraggio che fa superare le proprie paure per il fatto stesso di essere incessantemente impegnati nella ricerca di verità e giustizia: è dentro le cose che accadono e non può essere che questo l’istinto che lo guida. Per lui, il giornalismo è sempre stato una lotta contro i luoghi comuni. “Giornalismo palombaro”, l’ha definito in un’intervista, che scende in profondità, non giornalismo da surfista.
E’ con queste lenti che l’autore disvela l’altra Catania degli anni Ottanta, una città intrisa di mafia, ma cieca o volutamente indifferente. E quando la battaglia contro la criminalità organizzata in Sicilia sembra, o forse è, perduta, Gambino cerca altrove. Ma la calamita è quella: raccontare, senza pesare pericoli e disagi, storie di sfruttamento e ingiustizia, sempre dalla parte delle vittime. Storie come quella degli esmeralderos colombiani, costretti a vivere in condizioni estreme, raccontati da un bar dal nome “Aqui la vita no vale nada”, qui la vita non vale niente. Come i reportage sull’assedio di Sarajevo, dove è stato a un passo dall’uccidere un uomo. O quegli interminabili undici passi per uscire dalla roulette russa di un campo minato in Afghanistan.
Della prima guerra da inviato a Beirut, Gambino racconta l’assuefazione di chi ci si ritrova dentro e la tragica banalità quotidiana della vita durante i conflitti: dalla Green line bastavano pochi minuti per passare dalle trincee con i morti ammazzati – tutti i giorni in pausa pranzo – alla stridente normalità del ristorante con tovaglie di lino e camerieri in giacca bianca.
Il no di Gambino alla guerra, la sua penna contro la ferocia dell’uomo, è netto. Ma al fronte la guerra – forse la parola più frequente del libro – diventa per lui “passione tossica”, come confessa egli stesso, nelle pagine di “Un pezzo alla volta”, anni dopo. Lo diventa per chi continua a nutrirsi di paura e dolore, come l’inviato che ne è testimone diretto e che “smania per essere al centro delle cose”. E’ quella “fame di guerra” che “fa toccare la corda guasta” dentro di sé. La guerra in qualche modo anche “eccitante”, che attrae l’autore “perché ci dice chi siamo, e replica la lotta per la vita di ogni essere umano in una forma essenziale, depurata dalle buone maniere, dall’ipocrisia del ‘va tutto bene’ e dalle incombenze noiose, come pagare le bollette e stare in coda nel traffico”.
Per il giornalista-palombaro l’approdo è scontato: le inchieste di mafia degli Anni Novanta, i libri sui misteri d’Italia, le “biografie non autorizzate” su Andreotti e Berlusconi, passando per due grandi scoop: il massacro di Timosoara (mai accaduto) e quello sugli omicidi della Uno Bianca, sul quale sono state recentemente riaperte le indagini.
Sono anni, anzi decenni, che si snodano tra l’impegno civile e gli interrogativi che da uomo ormai maturo riflette sul senso di una scelta di vita senza compromessi, scelta consegnare “un mondo migliore, o perlomeno non peggiore” innanzitutto a chi ama di più: la figlia. “Combattere per qualcosa in cui si crede è uno dei regali che la vita ci fa oppure – come dice citando lo scrittore turco Ohran Pamuk – una palla al piede del talento? Esiste un modo per attutire quel senso di inadeguatezza che si prova tra il totalizzante sforzo di rendere il mondo un posto migliore e il desiderio di una vita quotidiana che permetta di coltivare relazioni, affetti e una certa “normalità” dello stare al mondo? “Bisogna struggersi, turbarsi, battersi, sbagliare, ricominciare daccapo e buttare via tutto, e di nuovo ricominciare e lottare e perdere eternamente”, dice Gambino. Forse, suggerisce questo memoir di vita, quel che conta è solo cercare di vivere con onore.
(Marco D’Auria)
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