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Quello che si chiede nel 2025 al Mezzogiorno è un cambiamento non solo di passo, ma di approccio. Per superare l’attuale modello di un Sud colonia interna i movimenti meridionalisti dovrebbero chiedere al Governo un confronto su numeri e risorse


Il rumore dei botti si allontana e il passaggio convenzionale da un anno all’altro ci porta a bilanci e previsioni. Per il Mezzogiorno l’anno trascorso non è stato di quelli horribilis. Più per il rallentamento della locomotiva, che ormai perde pezzi, che per merito proprio. I timidi segnali di crescita rilevati come il nuovo Rinascimento del Sud, trainati prevalentemente dal turismo, non sono tali da parlare di un’inversione di tendenza, ma più di una continuazione di un ciclo che rimane in una fascia molto simile a quella che si è verificata in passato.

Cioè piccoli incrementi, momenti di superamento congiunturale della crescita del Centro-Nord, in un contesto strutturale assolutamente negativo, che prevede che lavori solo una persona su quattro compresi i sommersi. E il manifatturiero, base fondamentale per evitare la perdita del migliore capitale umano formato esistente al Sud, che senza di esso non può che emigrare, non accenna ad avere quegli incrementi che sarebbe stato naturale arrivassero con le otto Zes e ora con la creazione della Zes unica, spacciata per la soluzione dei problemi, ma in realtà solo un ritorno alle vecchie politiche di incentivazione che ci sono sempre state.

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Il modello in realtà è rimasto quello di una colonia interna dalla quale estrarre tutto ciò che è possibile. Ragazzi formati, utenti per la sanità nordica, ragazzi per le università settentrionali, risorse provenienti dall’Europa che invece di essere destinate al Sud, vengono spalmate su tutto il Paese.

E per fare questo, si inventa una legislazione apposita che per esempio incoraggi i ragazzi a spostarsi consentendo loro di avere dei vantaggi per i primi anni di cambio di residenza con aiuti per la casa. O con legislazione farlocche come quella degli asili nido messi a bando che non possono che essere vinti da chi è più strutturato.

Quindi, per il futuro serve un cambio di passo. In realtà un diverso modello di sviluppo che preveda un approccio diverso rispetto a quello che si è avuto fino adesso. A cominciare da un programma che abbia nei dati il suo fondamento. Se un qualunque manager di una realtà aziendale che, per esempio, produce auto facesse un un progetto per la sua azienda senza indicare una previsione di dati di vendita, sarebbe immediatamente licenziato.

Eppure ogni anno si parla del Mezzogiorno senza mai indicare un minimo di obiettivo, in particolare sull’occupazione nelle varie branche dell’attività economica. C’è qualcuno che conosce il progetto del Governo in termini quantitativi per quanto attiene ai dati relativi all’agricoltura, al manifatturiero, alle costruzioni, al turismo e ai servizi in generale? In termini di crescita di occupazione e di Pil relativo? Niente di tutto questo. Solo grida in cui chiunque può dire che le cose sono andate benissimo o malissimo senza tema di essere smentito. Un festival di parole sul quale si dilettano direttori di giornali, quotidiani economici e non. Tanto parliamo di una realtà marginale e periferica. Vi è una previsione di quanti saranno coloro che dovranno trasferirsi da una parte all’altra del Paese per trovare un lavoro? E quali sono le azioni messe in atto perché tutto questo non avvenga?

Si può passare come avviene nei Paesi seri dalle parole generiche a progetti precisi, ad obiettivi definiti in modo da poter giudicare se effettivamente il lavoro svolto è stato congruente o assolutamente insufficiente? E allora quello che si chiede è che si abbia un progetto per questo Mezzogiorno di 20 milioni di abitanti, che preveda numeri, numeri, numeri.  Magari articolato per regioni. Per evitare che le risorse vengano impiegate per dare mance e mancette agli amici e ai clientes che, al di là dello spreco di risorse pubbliche, mettono in discussione l’equilibrio democratico. Infatti l’uso distorto dà vantaggi ai governanti non sulla base della buona gestione, ma dell’abuso nell’utilizzo delle risorse pubbliche, come è avvenuto recentemente in Sicilia. 

Insomma, un nuovo passo, un nuovo modo di gestire questa parte del Paese. Sempre sulla bocca di tutti i governanti, compresi i Presidenti della Repubblica, ma che in realtà nei tavoli che contano ha un peso assolutamente marginale. Quindi quello che si chiede nel  2025 è un cambiamento non solo di passo, ma di approccio. Che dalle parole passi a fatti verificabili.

Sarebbe una rivoluzione passare dal meridionalismo parolaio, che tutti sono in grado di intestarsi, al meridionalismo quantitativo che ha grandi difficoltà a farsi strada. Se i movimenti meridionalisti cominciassero a chiedere al Governo un confronto sui numeri, il passo avanti sarebbe di quelli fondamentali.


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