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Matteo Renzi

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Dall’assoluzione di Matteo Renzi per il caso Open a quella di Matteo Salvini per la Open Arms: il corto circuito giudiziario che condiziona la politica italiana


In 24 ore succedono due fatti legati all’amministrazione della giustizia del tutto diversi ma entrambi utili per ragionare sul rapporto tra politica e magistratura, tra politici e magistrati. Giovedì poco prima delle 13 Matteo Renzi e mezza della sua squadra quando era premier – tra cui i ministri Maria Elena Boschi e Luca Lotti, professionisti (l’avvocato Bianchi) e imprenditori (Marco Carrai) – sono prosciolti dal gup di Firenze Sara Farini perché, si legge nel dispositivo, “gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna”. Tradotto: tra tutte queste carte non c’è mezzo straccio di prova. Questa gente è stata nel tritacarne per cinque anni – le prime perquisizioni risalgono a ottobre 2019 – inutilmente perché nulla è contestabile dal punto di vista penale nel loro operato. Chiuso tutto senza neanche andare a processo.

L’ASSOLUZIONE DI SALVINI, QUELLA DI RENZI E LE RIFLESSIONI INELUDIBILI

Venerdì sera, 20 dicembre 2024, è stata letta la sentenza di primo grado che riguarda il caso della nave della ong spagnola Open Arms che con il suo carico di 147 migranti nell’agosto dell’annus horribilis 2019 fu tenuta al largo dei porti italiani nonostante il caldo e il disagio fisico dei naufraghi: governo e ministro dell’Interno avevano deciso che l’immigrazione illegale dovesse essere affrontata “chiudendo” i porti alle navi e agli sbarchi. Matteo Salvini è l’unico imputato e l’accusa è sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio, reato per cui l’accusa ha chiesto sei anni.
Così nelle ore che hanno diviso i due verdetti sono venute spontanee domande e riflessioni sul ruolo della magistratura e sullo stato di salute della democrazia. Qualcosa non sta funzionando più. E le conseguenze sono pericolose perché condizionano il corso della politica.

IL CORTO CIRCUITO GIUDIZIARIO CHE CONDIZIONA LA POLITICA: IL CASO OPEN

L’inchiesta Open si fa conoscere la mattina del 18 settembre 2019 quando decine e decine di agenti della guardia di finanza suonano alle abitazioni private di altrettanti imprenditori privati in una dozzina di città italiane perchè “colpevoli” di aver finanziato la Fondazione Open. Secondo l’aggiunto Luca Turco e il sostituto Nastasi della procura fiorentina, la Fondazione aveva funzionato come un’articolazione di partito riconducibile a Renzi tra il 2012 e il 2018 raccogliendo qualcosa come tre milioni e mezzo di euro. In pratica tutte le Leopolde negli anni di Renzi segretario del Pd e premier, sono sospettate di essere illegittime se non addirittura “arma del delitto”.

Un’intera comunità politica dovrebbe, secondo la procura di Firenze, sentirsi sporca e fuori legge. A tutti gli indagati, undici persone e quattro società, fu contestato il reato di finanziamento illecito. Decine di perquisiti furono sottoposti a verifiche – mai vere indagini – per aver finanziato la Fondazione. Intere famiglie sputtanate con i vicini che sussurrano e i figli, magari bambini, spaventati. Non si può qui rifare la storia dell’inchiesta, dai conti correnti ed intercettazioni acquisite in modo poi giudicato illegittimo e trascritte sui giornali con il marchio dell’infamia.

Non si può non rammentare che quelle perquisizioni furono ordinate due settimane dopo la nascita del governo Conte 2 e la decisione di Renzi, che pure aveva fatto nascere quel governo, di dividere la propria strada da quella del Pd. La domanda è scontata: quale corso avrebbe preso la politica italiana e il centrosinistra senza quell’inchiesta? Come è possibile che un pugno di magistrati abbia indagato la scelta stessa di organizzare un movimento e fare politica? Non lo sapremo mai perché cinque anni sono tanti in politica, quello che è stato tolto non sarà mai restituito. I “se” e i “ma” non scrivono la storia.

«UN PROCESSO NATO MORTO»

“Il gup ha celebrato le esequie di un processo nato morto – ha detto Federico Bagattini, difensore di Matteo Renzi con Giandomenico Caiazza. “Questa decisione – ha continuato – arriva dopo tre sentenze della Corte di Cassazione che avevano stabilito che non c’era reato, annullando tutti i provvedimenti di sequestro. Poi la Corte Costituzionale aveva ribadito come certi atti avrebbero mai potuto essere utilizzati. E quindi abbiamo perso tempo. Peccato per la onorabilità degli indagati. Peccato per i contribuenti che hanno speso inutilmente un sacco di soldi”.

Renzi parla di atto di “killeraggio politico” insieme ad “un processo di mostrificazione” suo e della sua famiglia. Comunque felice “per questa giornata dolce e gratificante”, fa una promessa: “Adesso possiamo ricominciare a fare politica”. Possiamo dire che in questo caso la magistratura ha ignorato la separazione dei poteri ed è pesantemente intervenuta nel processo politico condizionandone l’offerta. Molti, a destra, a sinistra ma anche nel Pd, allora gioirono con più o meno discrezione perché Renzi era stato azzoppato, “politicamente massacrato” dice lui. Qualcuno sperava per sempre.

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IL CORTO CIRCUITO GIUDIZIARIO CHE CONDIZIONA LA POLITICA: IL CASO OPEN ARMS

Tutt’altra storia quella di Matteo Salvini. Il comune denominatore, il filo rosso, è sempre il condizionamento politico che la magistratura esercita con le sue inchieste e l’invasione di campo – o l’occupazione di un vuoto? – con argomenti che dovrebbero essere normati in altro modo. Se Salvini ha sbagliato, se quei decreti erano sbagliati (e lo erano, come aveva anche stabilito il Tar), una democrazia dovrebbe avere gli anticorpi per intervenire prima della magistratura. A cominciare dal resto del governo che ha condiviso quegli atti – premier Conte, ministro Toninelli, capo di gabinetto Piantedosi – e ha solo scritto qualche lettera interna per dire che non era d’accordo.

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LA DIFFERENZA TRA I DUE CASI

La differenza tra i due casi è nei fatti. L’oggetto del processo sono 147 persone lasciate a bollire in mezzo al mare in pieno agosto per decreto. È stato il Parlamento ad autorizzare che il ministro Salvini andasse sotto processo. Il nodo è uno sostanzialmente: per i magistrati quello di Salvini non è stato un atto politico (e come tale sottratto al sindacato dell’autorità giudiziaria) ma un atto amministrativo e come tale sindacabile dal giudice. “Sei anni di carcere per aver difeso i confini” è sempre la linea di difesa del ministro. Ma per la procura di Palermo “il porto sicuro è stato negato in spregio delle regole nazionali ed internazionali. I diritti dell’uomo vengono prima della difesa dei confini”.

Se è assai opinabile la contestazione del reato sequestro di persona, Salvini è sempre stato sicuro dell’esito win-win della sua disavventura giudiziaria: vittima se condannato, osannato se vincitore. I magistrati gli hanno offerto per cinque anni un palcoscenico e lui lo ha cavalcato. Come ha fatto Trump, del resto. Motivo per cui tra i più potenti supporter del segretario leghista c’è Elon Musk.
Se a Renzi è stato sottratto il suo palcoscenico, a Salvini ne è stata regalato uno. Conseguenze entrambe gravi e sbagliate.


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