Alle 16 e 37 di venerdì 12 dicembre 1969 un ordigno esplode nel salone centrale della Banca nazionale dell’agricoltura di Milano
6 minuti per la letturaDicembre, quando nel 1969, il 12 per la precisione, cambiò tutto dopo la Strage di Piazza Fontana a Milano
A quei tempi novembre sembrava durasse di più. La smania immaginifica e la frenesia mercantile delle festività natalizie era circoscritta ai giorni coincidenti con la chiusura delle scuole. Era da un po’ di tempo invece che soffiava un’aria nuova e nelle scuole come nelle università, nelle fabbriche e negli uffici, in ogni luogo a dir la verità, c’era un gran fermento. Il vecchio mondo arretrava spinto dalla passione di chi si ribellava. L’anno prima il maggio francese ne aveva descritto i confini. Per i più ardimentosi non si trattava solo di abbattere un potere ma di desiderare una vita vera e sulle strade se ne sperimentava l’ebbrezza.
Cambiò tutto quell’anno e cambiarono di molto le nostre giovanissime vite. Era il 1969. Il 12 dicembre, per la precisione. La bomba di Piazza Fontana e poi l’assassinio di Pinelli nella questura di Milano, l’arresto di Valpreda. Un clima cupo ci avvolse e durò per molto. I più grandi di noi ci suggerivano cautela e noi ragazzetti sfrontati pensammo bene di occupare nei primi mesi del 1970 la nostra bella scuola media intitolata a Paolo Cappello, l’istituto Nitti che stava al piano di sotto e la succursale di Via Acri – all’epoca laterale al glorioso stadio Morrone – barricandoci dentro. “Strage di Stato, Pinelli assassinato, Valpreda innocente!. Si gridava a squarciagola nei cortei. Prima in pochi e poi sempre di più. Gli slogan sintetizzavano la verità, ma il mondo di sopra aveva messo in moto le sue armi di sempre.
Il democraticissimo giudice D’Ambrosio, poi parlamentare dei DS, in difesa dell’ordine costituito decretò “il malore attivo” come causa della morte di Pinelli. L’allora giovane Bruno Vespa annunciava in diretta televisiva con piglio servile, mai smarrito in futuro, l’arresto della “belva” Valpreda. Pasolini, qualche anno dopo accusò l’intero potere politico per la strage: «Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969, ma non ho le prove».
Il 20 di dicembre ai funerali di Pino Pinelli ferroviere come mio nonno, tutti sapevano invece chi era il colpevole e non c’era aria di perdono né tanto meno di pietà.
Nello stesso tempo mia madre che si riteneva una cattolica non praticante, manifestava una notevole idiosincrasia verso la borghesia imbellettata che andava in chiesa i giorni di festa come anche verso i suoi più umili vicini di casa di cui conosceva debolezze e piccole ipocrisie. L’arrivo di dicembre con le festività le provocava cattivo umore fors’anche per il pensiero di doversi barcamenare più del solito a far quadrare i conti, visto il troppo lavoro e il basso salario che raggranellava mio padre.
Era una splendida ricamatrice con gli occhiali riattaccati con lo scotch.
Il suo umore migliorava sensibilmente il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia. Per lei era come il sol dell’avvenire. “Le giornate da questo momento si allungano di un passo di gallina” ripeteva soddisfatta. Non sopportava il freddo, l’inverno e il buio. Per lei dopo Natale finiva l’inverno, anche se il braciere continuava ad ardere tutti i giorni fino a primavera inoltrata.
Nella nostra città Santa Lucia era il quartiere degli ultimi e delle puttane. La nostra Via del Campo. Oggi è un quartiere diroccato della città vecchia. Gli ultimi e gli espulsi li ritrovi a sopravvivere nelle case malferme. Altre lingue, la stessa fame.
A proposito di troppo lavoro e basso salario, mio padre ne era campione.
Quindici ore di lavoro quotidiane e in buona parte svolte di notte. Un solo giorno libero a settimana e nessuna festa di Natale da celebrare. Tra i pochi sopravvissuti della terribile ritirata italiana dalla Russia nel 1943, ne rimase traumatizzato tutta la vita senza ottenere nemmeno uno straccio di riconoscimento. Carne da macello.
A 58 anni era già vecchio e logoro, troppo lavoro, aveva iniziato da bambino.
Una malattia rara lo consumò lentamente. Anche gli operai della linea 5 dello stabilimento di Torino della Tyssen Group lavoravano da 12 ore il 6 dicembre del 2007 alle ore 00.53 quando una grande nube di fuoco alimentata dall’olio ad alta pressione fuoriuscito dall’impianto oleodinamico ne uccise sette di loro. Carne da macello come mio padre. Degli otto coinvolti Antonio morì sul luogo dell’incidente. Roberto, Angelo e Bruno il giorno dopo; Rocco e Rosario il 16 e il 19; Giuseppe attese la fine del mese. Uno solo sopravvisse. Jacopo Incani, il più visionario dei giovani autori italiani, scrisse per loro i versi feroci di “Torino pausa pranzo”.
Mio padre si ritrovò inaspettatamente una marea di gente al suo funerale. Era una brava persona che aiutava gli altri, mi sussurravano in tanti con delicatezza, mentre narravano storie a me sconosciute. La gente umile riconosce i suoi figli migliori. Di morti sul lavoro se ne contano tutt’ora oltre un migliaio all’anno. Non c’è traccia, per ovvi motivi, di quelli che muoiono lentamente di fatica.
Zio Salvatore, fratello di mio padre, emigrò a suo tempo in Australia e si ritrovò a lavorare la canna da zucchero. Un inferno sulla terra, raccontava. Terre civili quelle dei Wallabies. Riuscì a rivedere l’Italia dopo decenni e con mio padre si ritrovarono anziani, scrutandosi per ore con dolcezza.
Alle nostre arance invece ci pensano da anni quelli che arrivano, quando arrivano, dal Gambia, dal Mali, dalla Costa D’Avorio o dal Ghana. Sopravvivono in condizioni disastrose nelle tendopoli della piana di Gioia Tauro o nei tuguri della Sibaritide. Sono in migliaia, tutti gli anni.
Il 18 dicembre si celebra la giornata internazionale del migrante, non sappiamo a cosa è utile visto quello che accade in giro per il mondo.
Il nostro Mediterraneo iniziò a diventare un enorme cimitero la notte tra il 25 e il 26 dicembre del 1996 quando una vecchia nave di legno sovraccarica di migranti provenienti da India, Pakistan e Sri Lanka affondò a largo di Portopalo causando la morte di almeno 283 persone.
Le cronache raccontano che «i pescatori del posto si resero conto dell’avvenuto disastro quando, dopo alcuni giorni, iniziarono a recuperare con le proprie reti alcuni resti umani e altri relitti. Tuttavia, temendo che le indagini avrebbero potuto interrompere la pesca (unica fonte di sostentamento della zona), gli abitanti e le autorità di Portopalo non segnalarono i ritrovamenti alla magistratura. Solo a seguito di un’inchiesta giornalistica del 2001, il relitto della nave naufragata venne ritrovato alla profondità di 108 metri nel punto indicato da un pescatore locale». Storia drammatica ed emblematica di un mondo capovolto. Oggi di morti nel Mediterraneo se ne contano con molto difetto almeno 30.000 solo riferiti agli ultimi 10 anni.
A dicembre, gli spiriti caritatevoli si preparano al Natale ed i poveri cristi salgono alla ribalta. Disperati di ogni genere hanno il loro momento di gloria e ai più fortunati magari capita un primo piano televisivo. Jingle bells di sottofondo ad addolcire una vita di merda. Quanta bontà. Altri invece riempiranno l’album della stessa fotografia. Continueranno a fare come Harvey Keitel nel film “Smoke” che fotografa l’incrocio davanti al suo negozio tutti i giorni, con qualsiasi stagione, con tanta gente diversa, per anni. In attesa che qualcuno riconosca l’altro e si commuova fino a piangere. Forse quello sarà il segnale che aspettavamo. Una nuova consapevolezza che spazzi via questo merdaio.
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