Luciana De Luca e Anna De Luca Lio
4 minuti per la letturaIl ricordo dell’imprenditore cosentino Mario Dodaro e di tante altre vittime innocenti per le quali non è mai arrivata giustizia: la forza della memoria contro le mafie
SONO stati gli studenti del Liceo Scientifico Polo Tecnico Brutium di Cosenza ad arrivare per primi, ieri, al Parco degli Enotri a Mendicino. L’iniziativa “La memoria per la verità” dedicata all’imprenditore cosentino Mario Dodaro, ucciso il 18 dicembre del 1982 per essersi opposto alle richieste estorsive dei clan, li ha visti protagonisti insieme ai rappresentanti delle istituzioni e delle forze dell’ordine, ai familiari delle vittime innocenti delle mafie e alle associazioni “Libera”, “Piana Libera” e “Lucio Ferrami”.
La forza della memoria e della parola hanno fatto da sfondo alle storie raccontate, ma anche la musica ha trovato una sua ragion d’essere con l’incantevole voce della mezzosoprano Licia Toscano, accompagnata dalla fisarmonica del maestro Daniel Melaragno, che ha segnato il passaggio tra Calabria e Sicilia, accomunate da storie di stragi e dolore. Ma quanto è servita la memoria di uomini e donne attraversati dalla violenza mafiosa per ristabilire la verità? I numeri, purtroppo, ci rivelano una realtà desolante. La maggior parte dei familiari delle vittime innocenti delle mafie non è riuscita ad ottenere giustizia.
E allora, a cosa serve la memoria? Perché ci ostiniamo a raccontare storie, a parlare di questi morti? Forse proprio perché è l’assenza di verità che ci impone di ricordarli e di continuare a chiedere per loro verità e giustizia. Se scendesse il silenzio sulle loro vite interrotte bruscamente, diventeremmo complici di chi uccidendo ha pensato di eliminare il pericolo del dissenso alla mafia.
Sì, chi dice no alla mafia rappresenta un pericolo perché sta mettendo in discussione il suo potere assoluto su uomini e cose. E per questo quando Mario Dodaro nel 1982 disse no ai clan cosentini, che gli chiedevano di pagare una tangente di duecento milioni di lire per iniziare, andava eliminato perché metteva in discussione la loro autorità. Mario aveva 43 anni, era un uomo felice, realizzato. Aveva mille interessi, il calcio, la politica, la musica. A contrada Andreotta di Castrolibero, grazie a lui, stava sorgendo la chiesa e aveva aiutato a nascere la squadra di calcio per bambini nella speranza che tra loro ci potesse essere un futuro campione.
Mario non era l’imprenditore che si limitava a dare soldi per le iniziative che gli venivano proposte. No, lui seguiva a bordo campo le partite dei bambini che giocavano a calcio e si preoccupava dei loro bisogni. Mario era vicino agli ultimi, pagava i funerali della povera gente e pretendeva di migliorare la vita delle persone che conosceva. Le donne poi, le “costringeva” ad emanciparsi, a prendere la patente, a mettersi alla pari con gli uomini.
Quel 1982 sua moglie Lisa era in attesa del loro terzo figlio e Mario con chiunque parlasse manifestava tutta la sua felicità. Quell’anno, poi, festeggiava anche i 25 anni di attività e davanti al suo salumificio aveva voluto fare un albero di Natale enorme. A sua moglie aveva detto che quell’anno, a casa, l’albero lo avrebbe fatto lui. E lo voleva tutto rosso. Aveva una sola preoccupazione Mario, quegli uomini che si presentavano all’improvviso nel suo salumificio per chiedergli di pagare la tangente.
La libertà, la sua libertà di uomo e imprenditore, era questo che Mario sentiva in pericolo quando si trovava davanti quei balordi. Lui cercò di evitarli, di non farsi trovare, ma gli comparivano davanti all’improvviso. Finché qualche giorno prima che lo ammazzassero, li affrontò a muso duro. «Avete bisogno di un lavoro – gli disse – andate di là, indossate un camice e a fine mese vi pagherò lo stipendio come faccio con tutti i mie dipendenti, ma soldi da me non ne avrete». Quel giorno, i suoi collaboratori lo sentirono urlare e videro chi erano gli uomini che erano andati da lui.
Il 18 dicembre del 1982 Mario aveva pranzato con tutti i suoi dipendenti. Poi, dopo averli aiutati a sparecchiare era andato a trovare suo padre in ospedale e alle 20 e 30 era davanti al cancello di casa sua in via Puccini. Bussò ma il citofono era rotto e non apriva il cancello dall’interno. Lisa disse ai suoi figli Francesco e Antonella: «È arrivato papà, scendete ad aprire». In quel preciso momento partirono tre colpi di pistola. Mario fu colpito, perdeva sangue dalla bocca ma quando vide i suoi ragazzi avvicinarsi, li fermò con il gesto della mano.
L’ultima immagine che hanno i figli di Mario Dodaro del padre è di un uomo in una pozza di sangue. E non servirono le testimonianze dei dipendenti del salumificio che fecero nome e cognome di chi era andato da lui a chiedere la tangente per fargli ottenere giustizia. No. Gli imputati se la cavarono con una condanna per tentata estorsione e Mario fu riconosciuto vittima innocente di ‘ndrangheta 40 anni dopo la sua morte. La verità non è mai venuta fuori. Non ci rimane, dunque, che la memoria come forma di resistenza contro le mafie, per continuare a dire, 42 anni dopo, ancora no.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA