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Il grafico ci dice che in Calabria il 32% della popolazione vive sul 66,5% del territorio e il 68% sul restante 34,5%. Accorpare i comuni più piccoli (119) permetterebbe di fornire servizi migliori. Le fusioni, comunque, non si possono calare dall’alto

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Il risultato del referendum consultivo sull’istituzione della “Città unica” tra Cosenza, Rende e Castrolibero offre molti spunti di riflessione, tra cui uno sulla gestione dei processi di fusione dei comuni in Calabria. La netta vittoria del “No” (58,23% contro il 41,02%) e l’esito quasi plebiscitario a Rende e Castrolibero evidenziano conflitti sociali e politici, e il disimpegno, in particolare nella città di Cosenza, da parte dei sostenitori della fusione. Inoltre, la bassa partecipazione al voto (19,1% degli aventi diritto a Cosenza e 26,02% in totale) segnala un forte disinteresse verso il tema della fusione. Questo disinteresse potrebbe compromettere la capacità delle istituzioni regionali di promuovere future riforme amministrative e potrebbe rafforzare l’impressione che questi processi di fusione siano percepiti come imposti dall’alto, piuttosto che come soluzioni necessarie e condivise.

Questo scenario riflette anche la mancanza di una strategia regionale sulle fusioni, che dovrebbe prevedere studi e supporto tecnico, incentivi economici e una normativa più inclusiva. Tuttavia, sembra prevalere un approccio frammentato, con interventi non coordinati e a carattere isolato, piuttosto che un piano organico e condiviso di riforma amministrativa.
Alcuni dati giustificano la necessità di fissare con urgenza nell’agenda della politica regionale il riordino istituzionale degli enti locali di maggiore prossimità. In Calabria, la frammentazione amministrativa è marcata: al 31/8/2024 i 404 comuni registrano una popolazione media di poco più di 4500 abitanti (con un’estensione territoriale in media di circa 37,2 chilometri quadrati). Questa frammentazione comporta difficoltà nella gestione delle risorse, duplicazioni amministrative e inefficienze nella spesa pubblica.

Se si escludono i 9 comuni con più di 30.000 abitanti, la media scende drasticamente a circa 3.000 abitanti per comune. Inoltre, ben 258 comuni, ossia più del 60% del totale, sono classificati come “sotto livello”, poiché registrano un’offerta di servizi e una spesa inferiori alle soglie standard. In questi comuni vive il 64% della popolazione calabrese. Si tratta di una preoccupante inefficienza sistemica che non può essere ulteriormente trascurata, in quanto incide direttamente sulla qualità della vita dei cittadini e sulla capacità delle istituzioni locali di rispondere ai bisogni fondamentali delle comunità.

Una risposta a questo stato di cose è la riduzione del numero dei comuni, poiché i processi di aggregazione, in particolare nella pletora di nano comuni, facilitano nel tempo recuperi di efficienza della spesa e, quindi, di efficacia dell’azione amministrativa. Se da un lato è abbastanza condivisa l’idea di ridurre la frammentazione istituzionale, dall’altro lato non è immediato quantificarla. Da alcuni studi economici di ottimizzazione vincolata che stiamo realizzando al DESF “Giovanni Anania” dell’Università della Calabria si ottiene che, per minimizzare simultaneamente la spesa totale e la spesa pro-capite, il numero ottimale è 220 comuni. Questo numero passa a 285 quando si introduce l’ulteriore vincolo che con la spesa minima si rispettino i fabbisogni standard nell’offerta di servizi per ambito territoriale, che definiamo in base alla distanza massima di 5 km dei centri abitati. Al minimo, quindi, la riduzione dei comuni riguarderebbe ben 119 delle attuali 404 amministrazioni.

La gestione dei processi di fusione in Calabria non può prescindere da un’analisi critica dell’approccio finora adottato dalla Regione. L’assenza di un piano organico e il ricorso a interventi puntuali alimentano dubbi sulla coerenza delle politiche regionali in materia. L’iter istituzionale “dedicato” all’area urbana di Cosenza riflette un approccio sporadico e poco strutturato alle fusioni comunali. Per esempio, l’assenza di un coinvolgimento attivo delle comunità e dei consigli comunali ha compromesso l’efficacia del processo, poiché le fusioni hanno successo quando esiste un’azione di sensibilizzazione dal basso, come dimostrano le esperienze positive dell’associazionismo spontaneo di Corigliano-Rossano e di Casali del Manco.

Sebbene questi due esempi dimostrino il potenziale delle fusioni nate dal basso, è necessario rilevare che fare affidamento esclusivamente su queste dinamiche rischia di rallentare i processi. La difesa delle identità territoriali, infatti, è spesso pretestuosa e viene usata per preservare lo status quo. In realtà, i timori legati alla perdita di visibilità, potere politico e controllo delle risorse sono i veri ostacoli delle fusioni. In questi casi, senza un intervento chiaro e deciso della Regione, che guidi e promuova il processo, queste resistenze continueranno a prevalere, limitando i benefici collettivi. È quindi indispensabile un’azione più strutturata a livello regionale per superare gli ostacoli e rafforzare la sostenibilità amministrativa.

Un intervento mirato, come quello previsto per Cosenza, potrebbe essere opportuno solo nel caso in cui le resistenze politiche a livello locale frenino la creazione di un ampio consenso a favore delle fusioni. In tali circostanze, però, è fondamentale che l’intervento “dall’alto” arrivi solo dopo approfondite analisi delle necessità dei territori, di studio della sostenibilità economica-finanziaria dei nuovi enti e di impiego di un approccio misto che comunque valorizzi le dinamiche dal basso.
Ora, se il Consiglio Regionale intende giocare un ruolo più attivo nel promuovere il riordino degli enti comunali, dovrebbe dotarsi di strumenti più adeguati.

Per esempio, sarebbe necessario istituire un Osservatorio Permanente sulle Fusioni, capace di individuare ambiti territoriali prioritari sulla base di dati e analisi, nonché di fornire assistenza tecnica ai comuni piccoli. Inoltre, servirebbe creare un Fondo Regionale per incentivare ulteriormente le aggregazioni. L’approccio istituzionale calibrato sul caso specifico di Cosenza non risponde a questa esigenza e rischia di alimentare ulteriori difficoltà sociali, piuttosto che favorire un riordino istituzionale efficace. Interventi dall’alto potrebbero essere giustificabili, ma solo se preceduti da una seria valutazione delle reali necessità e da un approccio che consenta la partecipazione attiva delle comunità.

A questo scopo, è necessario (re)inserire nella legge regionale la possibilità che le fusioni vengano avviate anche da delibere dei consigli comunali, per garantire una maggiore inclusività e consenso nelle decisioni.
Una lezione che si può trarre dal caso della Città unica di Cosenza è che l’approccio attuale della Regione è inadeguato. Per affrontare in modo sistemico la frammentazione istituzionale e le inefficienze dei comuni calabresi, è indispensabile adottare un Piano Organico e Condiviso per le Fusioni, che metta al centro sia la costruzione del consenso delle comunità sia l’efficacia amministrativa. Solo così sarà possibile superare il disimpegno istituzionale e le tensioni che continuano a caratterizzare questi processi.

Economista, DESF “Giovanni Anania”, UniCal
Presidente di OpenCalabria

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