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E’ una lunga crisi quella francese oramai cronica dalle elezioni europee di giugno scorso e questo si riflette sulla stabilità dell’Europa
“Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più? E come stai? Domanda inutile!” Con queste parole di una nota canzone di Lucio Battisti si può fotografare la cronica situazione di crisi che attraversa la Francia dalle elezioni europee di inizio giugno scorso. Trionfo del Rassemblement national, importante sconfitta del partito del Presidente Macron, scioglimento dell’Assemblea nazionale e risultato contraddittorio dopo il doppio turno legislativo. In seguito a questa sequenza estiva e ad un lungo interludio “olimpico” praticamente senza governo, il “paziente francese” ha arrancato, non si è mai completamente ripreso per arrivare mercoledì scorso alla caduta del governo guidato da Michel Barnier. L’esecutivo con la più breve durata (e forse si potrebbe aggiungere più effimero) della V Repubblica e soprattutto “censurato” dall’Assemblea nazionale come era accaduto solo una volta dal 1958 (precisamente nell’ottobre del 1962 con il governo Pompidou, confermato poi da una doppia vittoria successiva, referendaria e alle legislative anticipate).
La prima domanda da porsi è che cosa non funzioni nel contesto transalpino. Una risposta seria necessiterebbe di una riflessione articolata e approfondita. Per schematizzare si possono citare una ragione strutturale e una contingente.
LA CRISI D’ADATTAMENTO DI PARIGI
Sul medio-lungo periodo Parigi sta vivendo una vera e propria crisi di adattamento, una difficoltà nel collocarsi con un ruolo di leadership all’interno dello spazio politico globale, perlomeno a partire dalla fine della Guerra fredda.
Se si vuole individuare un primo momento di dispiegamento di tale rigetto si deve ricordare il referendum sul Trattato di Maastricht del 1992. Nonostante l’appoggio di tutte le forze politiche di governo e un grande sostegno di un già malato ma comunque attivissimo Mitterrand, la vittoria del “sì” fu risicata. Cominciava ad emergere un “malessere” francese destinato a coagularsi in una serie di passaggi successivi (si pensi tra gli altri al ballottaggio presidenziale di Jean-Marie Le Pen nel 2002, al “no” al Trattato costituzionale europeo del 2005, alle ripetute violenze vissute dalle periferie parigine) e ben fotografato oggi da un rigetto totale nei confronti dei partiti politici, della presidenza della Repubblica e dell’Assemblea nazionale (per citare solo due dati l’86% dei francesi oggi non ha alcuna fiducia nei partiti e il 74% non ne ha nell’inquilino dell’Eliseo).
In definitiva la Francia può essere considerata, con le sue specificità ma anche con molti tratti comuni ad altre esperienze (italiana, britannica, statunitense, ecc.), il laboratorio di quel malessere generalizzato che attraversa il modello liberal-democratico da inizio XXI secolo.
L’IPOTESI DI RISOLUZIONE DELLA CRISI FRANCESE E L’IMPRESA DISPERATA
Se dalla struttura si passa alla congiuntura, si può affermare che l’irrompere sulla scena politica di Emmanuel Macron, circa un decennio fa, ha rappresentato un’ipotesi di risoluzione di questa crisi, proponendo una sorta di neocentrismo modernizzante, ma allo stesso modo fondato sull’utilizzo pragmatico (per non dire spregiudicato) delle istituzioni del semipresidenzialismo. Ebbene se questo tentativo già alla fine del primo quinquennato aveva dato segni di difficoltà, con l’avvio del secondo ha iniziato a scricchiolare per poi giungere alle convulse fasi degli ultimi sette mesi. Ultimo dato di contesto, ma assolutamente da non trascurare, il Paese versa in condizioni economiche precarie, con un rapporto deficit/Pil oltre il 6% (con conseguente procedura di infrazione da parte della Commissione aperta) e un debito pubblico al 112% del Pil, una crescita vicina allo zero e al contrario un tasso di disoccupazione in preoccupante risalita.
Di fronte ad un quadro di questo genere e con una Assemblea nazionale divisa in tre tronconi, per nulla omogenei anche al loro interno, l’impresa del governo Barnier era oggettivamente disperata. Eppure, una caduta così rapida ha delle responsabilità abbastanza chiare. Riguardano prima di tutto lo stesso Barnier che ha voluto impostare quella che è stata definita una “cooperazione esigente” con il Presidente mantenendo un profilo molto (forse troppo) autonomo e lavorando anche poco per garantirsi un sostegno saldo da parte delle forze politiche della sua “minoranza presidenziale” (i rapporti sono stati ad esempio fin da subito pessimi con il suo predecessore e capo dei deputati macroniani Attal).
Ha poi trovato la compatta opposizione del Nouveau Front Populaire, dominato dall’intransigentismo dell’estrema sinistra della France Insoumise e si è messo infine completamente nelle mani di Marine Le Pen e della sua volontà, almeno iniziale, di non censurare il governo guidato dall’ex Mr. Brexit.
LA CADUTA DEL GOVERNO
Una doppia regia ha però, al momento della presentazione della legge sulla Sécurité sociale due settimane prima del voto sulla Legge finanziaria, deciso di “staccare la spina” a Barnier. Da un lato Jean-Luc Mélenchon e dall’altra Marine Le Pen sono gli esecutori del “delitto Barnier”. Al netto delle molte concessioni che Barnier aveva fatto alle richieste di Le Pen, le due estreme hanno dato l’impressione di voler forzare la mano con un unico obiettivo in mente, per Mélenchon quanto per Marine Le Pen, nuove elezioni presidenziali anticipate, spingendo il presidente a dimettersi. Se le dimissioni dell’inquilino dell’Eliseo sono una richiesta costante del leader de LFI dai fatti della scorsa estate, meno comprensibile è la scelta di Marine Le Pen che, con l’“appoggio esterno” all’esecutivo Barnier in realtà era parsa compiere un decisivo passo nella direzione della normalizzazione del RN.
Anche se una maggioranza di militanti sembra compatta nel ritenere giusta la scelta della loro leader, una quota non trascurabile degli stessi non ha compreso l’accelerazione impressa agli eventi. Non poche voci si sono levate a sottolineare il cambio di rotta giunto quando Le Pen ha saputo del rischio condanna per l’affaire degli assistenti parlamentari. Il giudizio è atteso per il 31 marzo 2025 e potrebbe portare a cinque anni di ineleggibilità, con conseguente impossibilità di correre alle prossime presidenziali. Rovesciare il banco è diventata a quel punto un’ossessione.
Il ritorno di Macron
In questo scenario così caotico il pallino del gioco è tornato laddove doveva tornare, considerato il sistema semipresidenziale, cioè nelle mani del presidente Macron. Un presidente con livelli di fiducia bassissimi, ma allo stesso tempo fermo sulla convinzione di portare a termine il suo secondo mandato e dunque di avere ancora circa 30 mesi davanti, come ribadito nell’intervento televisivo di giovedì. La soluzione almeno provvisoria passa per la rottura del Nouveau Front Populaire, riuscendo ad inglobare i socialisti nell’area di governo e proponendo così un esecutivo non preventivamente alla mercé della sfiducia di LFI e RN (che da soli non avrebbero i voti per ottenere la maggioranza assoluta necessaria per una mozione di censura).
Si tratterebbe comunque di un governo a tempo, destinato a portare il Paese sino all’estate, quando presumibilmente (meglio evitare previsioni…) Macron opterà per un nuovo scioglimento, nel tentativo di ottenere a quel punto una razionalizzazione del quadro parlamentare, mancata per due volte tra il 2022 e il 2024.
LA CRISI FRANCESE E L’EUROPA
In uno scenario caotico e in totale divenire, una certezza permane. Quella di una profonda e drammatica crisi interna ai due soggetti costitutivi dell’asse franco-tedesco, proprio nel momento in cui la commissione von der Leyen muove i suoi primi passi, a breve seguiti da quelli della nuova presidenza Trump. Se a Palazzo Chigi quasi si gongola nel presentare il sistema italiano come il solo saldo e in salute nell’Ue, si dovrebbe forse ricordare che il funzionamento del motore franco-tedesco, in oltre settant’anni di costruzione europea, è sempre stato condizione necessaria (anche se a volte non sufficiente) per gli avanzamenti della stessa. Un chiarimento a Parigi, in attesa del voto tedesco, dovrebbe essere il regalo più atteso non solo accanto all’albero dei cugini francesi, ma anche a quello di noi italiani.
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