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Il comitato per i Lep scade a fine anno ma spunta la proroga, è scontro: sull’autonomia il governo sfida la Consulta
Non solo la convocazione, fuori tempo massimo, di una nuova riunione del Comitato per approvare il documento conclusivo sui Livelli essenziali delle prestazioni, l’architrave della riforma Calderoli clamorosamente smantellata dalla sentenza della Corte Costituzionale. Ma anche un pressing più o meno ufficioso sul governo per ottenere la proroga del Comitato guidato dal costituzionalista Sabino Cassese ben oltre il termine del 31 dicembre prossimo, quando per legge l’organismo avrebbe dovuto chiudere i battenti e mandare a casa tutti i suoi “saggi”. Invece, nelle ultime ore, è spuntato perfino l’ipotesi di inserire la nuova scadenza nel classico decreto legge “mille-proroghe di fine anno”.
Nelle bozze circolate nelle ultime ore non c’è una quantificazione dei nuovi termini ma solo il titolo dell’articolo. Precisamente il numero 16 del provvedimento, dal titolo esplicito: «Termini concernente l’attività istruttoria connessa alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni». Anche se l’obiettivo non ancora dichiarato ufficialmente sarebbe quello di allungare la vita del Comitato per almeno altri dodici mesi. Il tempo necessario per sistemare tutti i tasselli di una riforma che, di fatto, il governo è chiamato a riscrivere nei prossimi mesi. La proroga sarebbe necessaria anche per un’altra ragione, questa volta più politica: darebbe la possibilità al ministro delle Riforme, Calderoli, di continuare la trattativa con i governatori del Nord, dal Veneto alla Lombardia fino al Piemonte, che hanno già chiesto le deleghe per alcuni settori attualmente gestiti a livello centrale, a partire da quello della Protezione civile. Ma non solo.
L’ipotesi di una proroga rischia di suonare come un vero e proprio “schiaffo” ai giudici della Consulta. Per due motivi. Il primo è che nella sentenza con la quale sono stati dichiarati illegittimi sette punti della riforma, c’è anche uno che riguarda proprio il Comitato. Infatti, la suprema corte, con la sentenza 192, ha dichiarato illegittima proprio la norma della legge di bilancio del 2023 che istituiva il Comitato dei Lep fissando anche i relativi poteri. Da questo punto di vista, l’intero materiale prodotto dall’organismo guidato da Cassese può essere ormai declassato semplicemente a livello di documentazione istruttoria o ricognitiva. Non avrebbe, cioè, alcun valore istituzionale.
Ma c’è di più. La sentenza della Consulta agisce a monte del processo, dichiarando addirittura illegittima la distinzione fatta dal Comitato delle materie Lep e quelle non Lep, per le quali non serve aspettare la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni per procedere con la devoluzione alle regioni.
Insomma, la proroga rischia di fatto di essere “illegittima” e, in ogni caso, in palese violazione con la sentenza della Consulta. C’è, poi, un altro fattore da considerare. Una volta approvato il decreto, potrebbero essere le stesse Regioni che hanno promosso il ricorso contro la riforma ad eccepire sulla legittimità del provvedimento fino ad impugnarlo. Tutto, poi, in attesa della decisione della Cassazione sull’ammissibilità dei referendum di abrogazione, completa o parziale, della legge sull’autonomia differenziata.
Anche per questo, nei giorni scorsi, l’opposizione ha presentato una mozione per chiedere al Parlamento di discutere e votare non solo lo stop alla sottoscrizione di nuove proposte relative all’autonomia differenziata ma anche alle intese in corso finchè non saranno recepiti tutti i rilievi della Corte costituzionale.
Nel frattempo è già stata convocata la nuova riunione in presenza del comitato per il 17 dicembre prossimo. Sul tavolo la bozza conclusiva con i nuovi criteri per la definizione dei Lep. E, anche in questo caso, non mancano le polemiche. Soprattutto per la scelta di considerare variabili territoriali che, di fatto, rischiano di penalizzare il Sud nella distribuzione delle risorse. Nel segno di un’autonomia che non solo differenzia ma spacca il Paese.
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Le polemiche sul tema dell’autonomia differenziata delle Regioni si sono estese al decreto-legge 202/2024 (mille proroghe) che trasferisce presso il Dipartimento per gli Affari regionali della Presidenza del Consiglio l’attività istruttoria per la determinazione dei LEP (livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali) e dei relativi costi e fabbisogni standard.
Va detto che questo trasferimento non pregiudica affatto il ruolo del Parlamento poiché la Costituzione attribuisce il potere di iniziativa legislativa non solo a ciascun parlamentare, ma anche al Governo. L’Esecutivo intende quindi farsi aiutare dalla propria struttura nell’onere di presentare al Parlamento una proposta di legge sui LEP.
Dovremmo allora essere ottimisti sul fatto che si voglia proseguire il faticoso cammino per cercare di garantire un adeguato livello di servizi e prestazioni alla popolazione in ogni parte d’Italia, in particolare a quella fragile.
I gruppi parlamentari lascino allora da parte i reciproci sospetti e, senza gettare al macero il lavoro – certo incompleto, ma anche l’unico oggi esistente – sinora fatto dal
Comitato di esperti e Segreteria tecnica nella stesura dei livelli essenziali, da esso partano per scriverne un elenco il più completo possibile.
Elenco dapprima contenuto in un Testo unico dei LEP già esistenti in legge, per giungere poi ad un Codice che ricomprenda quelli ancora da individuare senza timore di elencare anche quelli non ancora finanziabili, ma predisponendo un calendario che divenga per l’Esecutivo l’impegnativo promemoria per future scelte di bilancio e per il Legislatore lo strumento di controllo nei confronti di attuale e
successivi governi.
Si tenga allora separato il percorso dei LEP da quello dell’eventuale autonomia differenziata delle Regioni, andando oltre l’improvvida affermazione della Corte costituzionale che nella recente sentenza n. 192 affiderebbe ai LEP la “salvaguardia di condizioni di vita omogenee sul territorio nazionale” solamente in caso di devoluzione dell’autonomia, anziché prevederla come costante garanzia per la popolazione.
In proposito, bene farebbero Camera e Senato nell’adottare uno spirito simil a quello che vide nel biennio 1946-1947 l’Assemblea costituente al mattino discutere aspramente su leggi e attività governativa, ma al pomeriggio costruttivamente ragionare sul testo della futura Costituzione.