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Dopo anni di successi nel cinema e in televisione, Raoul Bova ritorna sul palcoscenico con “Il nuotatore di Auschwitz”. Doppio appuntamento in Calabria: venerdì 22 novembre al Teatro Grandinetti Comunale di Lamezia Terme e sabato 23 novembre al Teatro Comunale di Catanzaro.


Dopo anni di successi nel cinema e in televisione, Raoul Bova ritorna sul palcoscenico con una nuova consapevolezza, quella di chi ha tanto da raccontare e un potente messaggio da trasmettere. L’attore, che ha conquistato il pubblico con pellicole e serie tv indimenticabili, sarà protagonista de “Il nuotatore di Auschwitz”, uno spettacolo che racconta una storia di straordinaria resilienza e speranza. Il doppio appuntamento in Calabria è fissato per venerdì 22 novembre al Teatro Grandinetti Comunale di Lamezia Terme e sabato 23 novembre al Teatro Comunale di Catanzaro, all’interno del cartellone di AMA Calabria, sostenuto dall’Assessorato alla Cultura della Regione Calabria – Settore Teatro. Un’occasione unica per assistere a una narrazione intensa, capace di emozionare e stimolare una profonda riflessione sul valore della vita.

“Il nuotatore di Auschwitz” è ispirato alla storia di Alfred Nakache, campione di nuoto ebreo nato in Algeria, e al libro “Uno psicologo nei lager” di Viktor E. Frankl. Sopravvissuti agli orrori di Auschwitz, entrambi incarnano diverse risposte alla brutalità: l’istinto di sopravvivenza da un lato, la riflessione filosofica dall’altro.

Al centro dello spettacolo, Alfred Nakache diventa simbolo di resistenza, forza e speranza. Deportato dai nazisti nonostante i suoi record sportivi, Nakache ha lottato per la vita in un ambiente che negava l’umanità. “Il nuotatore di Auschwitz” va oltre il racconto storico e affronta temi di scottante attualità. Le emozioni sono il cuore pulsante di questa pièce teatrale. Per saperne di più, abbiamo intervistato Raoul Bova.

Raoul Bova, cosa l’ha spinta a portare in scena questo spettacolo?

«Già da tempo, insieme all’autore Luca De Bei e al produttore Michele Gentile, stavamo cercando un testo per il mio ritorno a teatro. Avevo un po’ di nostalgia del pubblico, avendo fatto lunghe stagioni televisive. Da qui, è partita la ricerca su un tema che potesse darmi quel qualcosa in più che magari in una fiction o in un film non avevo mai sperimentato e che potesse avere un messaggio forte da condividere con gli spettatori. Sentivo l’esigenza di raccontare una storia intensa, profonda. Abbiamo trovato le vite di due personaggi che hanno vissuto l’inferno di Auschwitz però ne sono usciti fuori. Il testo è il risultato di riunioni, scambi di idee e di emozioni. Paragonare il presente a quel periodo ci ha dato la possibilità di comprendere ancora meglio alcuni concetti esistenziali: cos’è la vita, come la stiamo vivendo e quanto la apprezziamo. Abbiamo raccontato i meccanismi della privazione dell’identità e della dignità di chi è sopravvissuto ed ha trovato un modo per vivere, apprezzando la quotidianità in maniera incredibile».

Come si è preparato per interpretare Alfred Nakache e Viktor Emil Frankl?

«Sono due personalità completamente diverse. Alfred si è salvato grazie al suo istinto di sopravvivenza; invece, Viktor ha ragionato sulle cose, ha fatto in modo che questa esperienza diventasse materia scritta. Quindi, rispondendo alla tua domanda, mi sono chiesto in che modo sia possibile sopravvivere in quelle situazioni, cosa scatta nella testa di chi viene privato della propria libertà, viene vessato, violentato, ucciso. Mi sono domandato cosa pensa colui al quale vengono portati via i propri cari. Temi a cui Viktor dà una risposta. Quindi, c’è questa dualità di anime: Alfred pone delle domande e Viktor spiega le dinamiche di quel periodo, cioè dell’internato».

Come ha lavorato a livello psicologico?

«Ogni tecnica utilizzata dall’attore per entrare nel personaggio deve essere animata da un cuore pulsante. L’attore non può limitarsi a recitare, deve immergersi completamente nei suoi sentimenti, abbracciando il testo in ogni sua sfumatura. Questo copione è complesso, denso di significato. Ogni parola, ogni gesto, ogni silenzio porta con sé un peso che va oltre la superficie. Entrare nella psicologia dei personaggi significa vivere il loro dramma, ma anche la loro capacità di sperare in un futuro migliore. Raccontare la vita nei lager è un’esperienza emotiva che ti travolge. E il bello del teatro sta proprio qui: ogni rappresentazione è diversa, unica».

Un aneddoto da backstage?

«Ci sono momenti in cui la sensibilità prende il sopravvento. Durante le prove, mi è capitato di scoppiare in un pianto senza fine, completamente travolto dalla scena e dal personaggio. Altre volte, il dolore era più profondo, più interiore, e l’emozione si faceva silenziosa, ma altrettanto intensa».

Raoul Bova, c’è qualcosa di questo spettacolo che ha cambiato il suo modo di vedere la vita o il suo lavoro di attore?

«Ogni attore, quando sceglie un testo, un film o una serie, lo fa perché una parte di sé sente il bisogno di confrontarsi con quel tema. Ci sono storie che magari non scegli, perché non ti senti pronto ad affrontarle in un determinato periodo. Questo testo è arrivato nella mia vita quando avevo una pausa dalle serie e dal cinema; l’ho “incontrato” nel momento giusto».

Una scena particolarmente significativa o emozionante?

«Mi piacciono molto le analisi e le deduzioni dello psicologo Viktor perché riesce a dare voce agli stati d’animo degli internati, spiegando le loro storie e, soprattutto, l’istinto di sopravvivenza. Si parte dal concetto di sopravvivenza pura. Un bambino viene gettato nell’acqua e per salvarsi inizia a nuotare. Si parla degli uccellini che devono prendere il volo: il primo volo segnerà il loro destino. C’è chi apre le ali e vola, chi non ce la fa e si schianta a terra, e chi, invece, riesce a planare. Questi concetti, che uniscono l’esperienza universale dell’infanzia e le dure prove della vita quotidiana, sono estremamente toccanti. Le fughe, i ritrovamenti, i pensieri che Alfred dedica alla moglie e alla figlia sono momenti che arrivano al cuore».

Raoul Bova il nuoto è una parte importante della sua vita che ritrova anche in questo spettacolo. Dico bene?

«Sì, assolutamente. L’acqua è un elemento che mi ha sempre affascinato, con la sua doppia natura: la dolcezza che ci culla e la forza distruttiva che può avere. L’acqua è vita. Siamo fatti per il 90% di acqua, e per nove mesi siamo avvolti da un liquido nel ventre materno, un ambiente che conosciamo come nessun altro. Ma poi, quando nasciamo, sembra che dimentichiamo questa connessione. Eppure, l’acqua può essere sia una gioia immensa che una privazione della vita».

Una caratteristica che sente vicina ad Alfred Nakache?

«Alfred è un entusiasta, sempre pronto a lanciarsi nella vita con determinazione. Mi rivedo molto nel suo approccio istintivo».

Cosa spera che il pubblico porti con sé dopo aver assistito a questo spettacolo?

«L’obiettivo è che il pubblico non resti solo sorpreso dalla performance, dagli effetti speciali e dalla musica, ma esca dal teatro arricchito da una riflessione profonda. Auschwitz, purtroppo, non è così lontana come pensiamo. In che mondo stiamo vivendo oggi? Spesso, non apprezziamo le piccole cose che dovrebbero essere scontate, come tornare a casa e trovare qualcuno che ci aspetta e ci apre la porta. Eppure, in altri angoli del mondo, c’è chi sta soffrendo, chi muore di fame, chi è prigioniero, sia fisicamente che mentalmente, chi è vittima di bullismo e di violenza. Ecco, mi sono reso conto che, ogni giorno, ognuno di noi vive un piccolo “lager”. Ci sono situazioni da cui le persone non riescono a uscire. Alcuni soccombono, altri trovano la forza di sopravvivere. In questo spettacolo, abbiamo cercato di esplorare queste dinamiche. Il nostro scopo non è solo quello di raccontare una storia, ma di offrire un messaggio di speranza, un piccolo aiuto a chi sta affrontando la propria battaglia».

Progetti futuri?

«Al momento sono completamente concentrato su questo spettacolo, voglio dare tutto me stesso. Tuttavia, il prossimo anno ci sono già alcuni progetti in cantiere, qualcosa che sta per prendere forma e che spero di poter condividere presto».

Raoul Bova, il sogno nel cassetto che non ha ancora realizzato?

«C’è sempre un cassetto da aprire con un sogno dentro. Ogni età, ha un cassetto diverso con un sogno diverso. Quando vedi che stai correndo verso un obiettivo e le cose vanno bene, in realtà quel momento stesso diventa già un sogno realizzato».

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