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Donald Trump

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L’Europa dopo la vittoria di Donald Trump alle elezioni in Usa si trova impreparata a fronteggiare un’altra presidenza del Tycoon


L’Europa si trova a vivere un pericoloso déjà-vu. Il messaggio di Donald Tusk, primo ministro polacco, a commento del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca recita così: “È tempo per l’Europa di diventare finalmente grande e di credere nella propria forza”. Sette anni fa, in occasione del primo complicato vertice con lo stesso Donald Trump, l’allora cancelliera tedesca Angela Merkel commentava: “Noi europei dovremmo prendere il nostro destino in mano, dovremmo batterci per il nostro futuro da soli, in quanto europei”. Sono passati sette anni, da due anni e mezzo abbondanti la guerra è tornata con prepotenza al centro dell’Europa, Trump è stato trionfalmente rieletto alla Casa Bianca: eppure l’Europa non è per nulla preparata ad affrontare tutto ciò.

Ma c’è di più. L’attuale Paese che ha la presidenza di turno dell’Ue, l’Ungheria di Orban, costituisce insieme alla Slovacchia una vera e propria “quinta colonna” del putinismo tra i 27. E ancora la Germania di Olaf Scholz, pronto a dichiarare il suo “cambiamento d’epoca” all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, oggi sogna di tramutarsi nel “cancelliere della pace” e si sprecano all’interno del Bundestag tedesco le proposte di apertura di negoziati sull’Ucraina, mediati da India e Cina. Il tutto in un contesto di stagnazione economica tedesca con relative ricadute continentali. E cosa dire di Emmanuel Macron? Avversato da tre francesi su quattro, senza maggioranza parlamentare e di fronte a conti pubblici da far tremare i polsi, non sembra trovare nulla di meglio se non rilanciare la teoricamente ineccepibile, ma ad oggi concretamente irrealizzabile, autonomia strategica europea.

TRUMP E UNA EUROPA ANCORA NON PRONTA A CONFRONTARSI

Oggettivamente l’Europa non è per nulla pronta a confrontarsi con il Trump II, a maggior ragione se il tycoon dovesse applicare quel “protezionismo aggressivo e di confronto” proposto nel corso della campagna elettorale. Sulle cifre si potrà discutere, ma è impensabile che almeno una parte dei dazi doganali promessi sui prodotti europei non arrivino. Lo squilibrio nella bilancia commerciale è oggettivo e Washington assumerà qualche iniziativa.

La dipendenza maggiore dal mercato statunitense è quella tedesca, ma a seguire chiamati in causa saranno Roma e Parigi. Alcuni settori come l’alimentare e il lusso (per l’Italia), i vini (per la Francia ma anche per l’Italia) o il farmaceutico e l’aerospaziale (per la Francia soprattutto) sono con il fiato sospeso. Se sugli effetti sul PIL di provvedimenti di questo genere gli esperti si dividono, unanime è il giudizio sull’effetto indiretto che si potrà avere a seguito dei dazi sui prodotti cinesi da parte degli Usa, sui quali le certezze sono abbastanza granitiche. In quel caso la Cina, trovandosi sbarrata la strada americana, non farebbe altro che inondare i mercati europei di prodotti cinesi. Insomma, una potenziale guerra commerciale globale finirebbe per essere mortifera per il Continente europeo. Ucraina e commercio a cui aggiungere il settore energetico.

Anche qui i rischi non mancano. Se come promesso Trump spingerà sull’acceleratore nelle trivellazioni e nel fracking (letteralmente “forando ovunque”), lo squilibrio con un’Europa, che ha già prezzi più alti per l’approvvigionamento di idrocarburi, non tarderà a farsi sentire. Per non parlare poi del quasi certo nuovo abbandono degli accordi di Parigi sul clima. La lista potrebbe ulteriormente allungarsi, ma la sostanza non cambia: il “re europeo è nudo” di fronte al secondo tempo della sfida trumpiana.

COSA INSEGNA LA SECONDA VITTORIA DI TRUMP

Vi è però un altro angolo di visuale dal quale osservare, sempre in prospettiva europea, il ritorno del tycoon alla Casa Bianca e cioè cercare di trarre alcuni insegnamenti da questa affermazione elettorale così netta. Il primo dato è di natura strutturale e riguarda la crisi dello strumento partitico come veicolo di costruzione e selezione delle leadership politiche. Nessuno vuole comparare la forma partito statunitense a quella europea.

È però evidente che i due sfidanti alla Casa Bianca sono stati anche, se non solo, il prodotto della totale incapacità da parte del partito repubblicano e di quello democratico di selezionare due candidati di spessore, in grado di elevare il dibattito e di guidare quella che resta la prima superpotenza mondiale. Il totale annichilimento della tradizione repubblicana da parte del cosiddetto “popolo Maga” è stato posto sotto gli occhi di tutti in questi mesi. Ma come non citare un Partito democratico incapace di spingere l’anziano presidente a ritirarsi in tempo per poter organizzare vere primarie, che avrebbero senza alcun dubbio prodotto una candidatura ben più forte e strutturata di quella della debole e deludente vicepresidente uscente.

TRUMP E L’EUROPA, IL FALLIMENTO (SUPPOSTO O REALE) DELL’AMMINISTRAZIONE BIDEN

Il secondo e il terzo dato riguardano due delle determinanti tematiche che sembrano aver avuto un peso rilevante nell’orientare l’elettorato statunitense verso il voto a Trump. Da una parte il tema del fallimento (supposto o reale) da parte dell’amministrazione Biden nella gestione dei flussi migratori. Il tema migrazioni, volenti o nolenti, è centrale nelle agende politiche di tutti i Paesi dell’emisfero settentrionale. Limitarsi ad assecondarlo, a corredarlo di affermazioni tautologiche che tendono a presentare i fenomeni migratori come antichi quanto il mondo e/o a legarlo solo e soltanto al tema dell’invecchiamento di una parte della popolazione e alla necessità dei migranti quali surrogati alla sostenibilità dei sistemi di welfare, finisce per aprire ampi spazi di manovra per demagoghi e populisti di cui Trump è l’emblema.

Su questo dovrebbero meditare bene a Berlino almeno quanto a Parigi, magari anche osservando quello strano laboratorio che è l’Italia di Giorgia Meloni, oggi indirettamente indebolita di fronte al trumpiano Salvini. Dall’altro lato anche il tema della rivoluzione green è stato travolto dall’onda demagogica di The Donald. Ma anche in questo caso un minimo di attenzione in più e soprattutto una qualche dose di pragmatismo maggiore, potrebbero forse permettere allo spazio europeo di non gettare il “bambino” della transizione energetica insieme alla cosiddetta “acqua sporca” del ritorno totale agli idrocarburi sbandierato da Trump.

DONALD TRUMP COME EFFETTO DELLA CRISI DELLA LEADERSHIP STATUNITENSE

Come ha più volte affermato Mario Del Pero (Sciences Po, Paris), uno dei migliori conoscitori europei di questioni americane, Donald Trump non è la causa ma è l’effetto (il prodotto ultimo e degenerato) della lunga crisi della leadership statunitense nella sua proiezione globale e nella sua difficoltà di adattamento al mondo post bipolare. A questa grande verità si può forse aggiungere che la sua infausta vittoria è lo specchio nel quale si riflettono tutti i ritardi europei, ma dal quale emergono anche non pochi fondamentali insegnamenti. Saremo ancora una volta ciechi e sordi di fronte agli esempi per nulla virtuosi, ma potenzialmente utili, provenienti dalla “nuova frontiera”?


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