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Le ricadute del voto americano sull’Europa: il mondo deve tifare Kamala Harris. Il grande “New Deal” di Biden sottovalutato. E il “nulla” di Trump trova spazi immeritati


Giunte ormai alle battute finali, le elezioni presidenziali americane stanno facendo emergere due grandi rimozioni: la rimozione dell’exploit delle politiche pubbliche di Joe Biden da parte dei cittadini statunitensi e la rimozione della minaccia incombente rappresentata da Donald Trump da parte dei paesi europei.
La prima rimozione è descritta in un lungo reportage sul New Yorker da Nicholas Lemann, scrittore e preside emerito della Facoltà di giornalismo presso la Columbia University Graduate School of Journalism. Nell’articolo intitolato Bidenomics is Starting to Transform America. Why Has No One Noticed? Lemann spiega un fatto che nessuno racconta: ovvero che la presidenza Biden è stata una grande esperienza di governo riformista. Capace di varare più programmi di riforma di ogni amministrazione democratica. Dai tempi di Lyndon Johnson e perfino dai tempi del New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Migliaia di miliardi di dollari investiti nella creazione di fonti di energia pulita. Nella ricostituzione di intere filiere industriali. Nel varo di migliaia di progetti infrastrutturali. Nel contrasto alle concentrazioni di potere economico.

Rovesciando la prospettiva contraria agli eccessi di interventismo statale che aveva dominato la scena negli anni ’80 e ’90, prima con il successo del neoliberismo repubblicano di Ronald Reagan e poi con il successo della Terza Via di Bill Clinton, Joe Biden è stato l’alfiere del ritorno del keynesismo alla Casa Bianca.
Come spiega lo storico Arnaldo Testi nel suo blog Short Cuts America, in questo modo Biden ha anche cercato «di favorire un riallineamento elettorale nel cuore del Paese, la heartland, il grande Midwest. Le aree colpite dalla ex globalizzazione poco popolate ma con uno sproporzionato potere politico». Un poderoso piano di riforme che potrebbe riconquistare «pezzi di elettorato popolare e operaio che sono passati ai repubblicani». Nel tentativo di rendere di nuovo competitivo il partito democratico.

Lemann spiega però che questi programmi hanno caratteristiche sistemiche e pertanto vanno valutati nel lungo periodo. In sostanza, hanno la forza di trasformare la struttura legislativa, amministrativa e finanziaria del Paese. Anche a dispetto di chi governerà dopo Biden, e i loro effetti positivi si svilupperanno negli anni. Benché – è bene ricordarlo -già oggi l’amministrazione americana uscente lasci un’America più ricca e solida di quella che aveva ereditato dal quadriennio di Donald Trump.
L’ironia della storia vuole però che gli effetti politici della Bidenomics siano al momento praticamente nulli. Per adesso sono soprattutto gli amministratori locali, sia democratici che repubblicani, che raccolgono i dividendi politici di alcune grandi opere – ponti, strade, ospedali, ferrovie, fabbriche – realizzate con il sostegno del governo federale.

Qualcuno sostiene pertanto che su tutte queste opere Joe Biden avrebbe dovuto lasciare la sua etichetta. Proprio come aveva fatto il New Deal: “Joe Did It” (“Lo ha fatto Joe”).
Viceversa, succede che la stessa Kamala Harris, nel tentativo di apparire nuova e appetibile sul piano elettorale, abbia escluso fin dall’inizio di basare la sua propaganda sui risultati dell’amministrazione uscente. E succede che gli elettori si concentrino – ma accade così sempre e ovunque – più sulle carenze e sui disagi ancora esistenti che sulla crescita dell’economia garantita dal governo in carica. In questo quadro, la comunicazione ansiogena e rancorosa di Donald Trump trova uno spazio sproporzionato e immeritato alla prova dei fatti.
L’altra grande rimozione riguarda l’Europa. L’eventuale vittoria di Trump è già l’incubo delle cancellerie continentali, ma nessuna di queste, negli ultimi anni, ha fatto abbastanza per trovarsi pronta all’appuntamento. L’Unione europea era già stata presa alla sprovvista nel 2016, quando il tycoon sconfisse inaspettatamente Hillary Clinton. Ma lasciò passare quel quadriennio senza far nulla.

La vittoria di Joe Biden nel 2020 è stata vissuta con un respiro di sollievo. Ma in questo modo sono trascorsi altri quattro anni senza che i Paesi europei abbiano adottato delle politiche adeguate – soprattutto nel campo della difesa e della sicurezza – per riuscire a fronteggiare l’eventuale disimpegno americano più volte minacciato da Donald Trump. Che vede da sempre la Nato come un’organizzazione di cattivi pagatori a totale carico del Tesoro americano.
Adesso il vecchio continente, vista la crisi di Francia e Germania, i due motori storici dell’integrazione, si trova senza Paesi guida. Lo stesso Mario Draghi, a capo del governo italiano, pur esercitando un ruolo cruciale nella ripresa del protagonismo politico europeo, è stato una meteora. Mentre adesso a Palazzo Chigi c’è una maggioranza di centrodestra che non brilla per visione europeista.

Nel frattempo, l’Europa si trova nella difficoltà esistenziale di gestire due guerre alla sua periferia, nell’Oriente europeo e nel Medio Oriente. Il rapporto di Mario Draghi sulla competitività europea doveva rappresentare una sferzata per tutti. Ma è stato immediatamente ridimensionato da alcuni Paesi membri, che non hanno voglia di mettere in comune le risorse per fronteggiare le crisi industriali e militari.
L’Europa si ritrova così a vivere un conflitto profondo tra la dimensione federale incarnata da Ursula von der Leyen con grande fatica, viste le resistenze delle capitali europee, e la dimensione centrifuga e opportunista di Viktor Orban, il premier ungherese che fa il tipo per Vladimir Putin e per Donald Trump. Se quest’ultimo dovesse vincere, per l’Europa sarebbe un duro risveglio.


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