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Donald Trump e Kamala Harris

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Le elezioni americane: sono una evoluzione democratica oppure una involuzione autoritaria? Di certo sono un test per lo Stato di diritto degli Stati Uniti


Si è conclusa la lunga campagna elettorale per la Presidenza degli Stati Uniti e si sta per chiudere anche il lungo ciclo elettorale del 2024, vero ‘tornante della Storia’, che ha interessato molti Stati e più di due miliardi di elettori. Martedì 5 novembre gli elettori americani, che non hanno ancora utilizzato il voto postale o l’early voting, sono chiamati al voto per eleggere il Presidente, l’intera Camera dei rappresentanti, un terzo dei senatori (33 su 100), 11 governatori e 85 delle 99 assemblee legislative dei singoli Stati. Si voterà, come sempre, anche per molti referendum, più di 50, tra cui il referendum sull’aborto in 10 Stati.

L’attenzione è comprensibilmente incentrata sul voto per la Presidenza, che ci offre uno scenario inedito: una corsa serrata tra due figure emblematiche e profondamente diverse come Donald Trump, che ha trasformato il partito Repubblicano, convertendolo in un’agenzia di mobilitazione populista, e Kamala Harris, candidata del partito Democratico senza aver vinto le primarie del partito, ma subentrata dopo il ritiro del Presidente Biden. È impossibile fare delle previsioni, dal momento che i sondaggi ci indicano un ‘testa a testa’ tra i due candidati, per cui la vittoria elettorale dipenderà da una manciata di voti nei cosiddetti Swing States (Pennsylvania, Michigan, Georgia, Wisconsin, Arizona, Nevada e North Carolina), in cui non c’è un radicamento storico per nessuno dei due partiti.

Come nel 2020, la campagna elettorale ci restituisce un’America profondamente divisa con una società molto differenziata: gli uomini e le donne, i giovani e gli anziani, i laureati e i non laureati, i bianchi e le minoranze, la popolazione urbana e quella rurale, con posizioni opposte su alcuni grandi temi come i migranti, la difesa dell’ambiente, il controllo delle armi e la tutela dei diritti. I due candidati non potevano essere più distanti, non solo nell’orientamento politico e nell’approccio sui grandi temi che hanno assunto in tutta la campagna elettorale, ma anche nella visione del mondo. Donald Trump, da perfetto WASP (White Anglo-saxon Protestant), si è rivolto soprattutto a chi ‘sogna’ l’America di un tempo e ha riproposto lo slogan MAGA (Make America Great Again), promettendo di riportare la società americana a una ‘nuova età dell’oro’.

La sua campagna elettorale ha continuato a canalizzare il ‘malessere’ di quanti non si sentono più rappresentati dall’establishment politico, dai media e dal sistema economico che hanno generato livelli crescenti di diseguaglianza. Al popolo dei MAGA si sono aggiunti – e anche questo è un fenomeno inedito – alcuni imprenditori come Elon Musk, facendo intravedere una scissione tra capitalismo americano e principi democratici. Questa scelta di campo può essere interpretata anche come sintomo di un cambiamento degli obiettivi principali di alcuni imprenditori per i quali la ricerca della protezione del potere politico diventa preminente, senza tener conto delle sorti della democrazia americana, visto il precedente dell’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio 2021. Richiamandosi all’orientamento isolazionista di una parte della società americana,

Trump ha promesso l’aumento dei dazi su tutte le importazioni, prevalentemente dalla Cina, ma anche dall’Unione europea, nonché la più grande ‘deportazione’ di massa della storia americana, espellendo almeno 11 milioni di migranti illegali anche tramite l’intervento dell’esercito e della Guardia nazionale. Inoltre, non è riuscito a trattenere la sua indole e il suo linguaggio profondamente misogino insultando ripetutamente la sua avversaria, equiparandola agli immigrati che hanno causato il declino dell’America e minacciando, addirittura, anche Liz Cheney, che ha avuto la sola colpa di non sostenerlo e di favorire la sua avversaria. Kamala Harris, donna di colore che incarna la società americana multietnica, si è rivolta nella sua campagna elettorale principalmente alle donne, ai giovani, alle minoranze e a chi, con uno sguardo internazionalista e con una proiezione multilaterale, vuole tutelare le libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione.

Negli ultimi decenni, la divisione di genere nell’elettorato americano è diventata sempre più marcata sia sui temi sociali che sui diritti civili, specialmente sui cosiddetti “diritti riproduttivi”. Si comprendono le diverse manifestazioni di donne degli ultimi giorni per protestare contro la misoginia di Trump e a sostegno della candidata Harris, ma è difficile anticipare se questi movimenti influiranno in modo determinante sull’esito dei risultati elettorali. Non è scontato che i risultati elettorali si conosceranno dopo lo spoglio delle schede nei vari Stati, dal momento che lo staff di Trump ha già anticipato che si sta valutando la presentazione di ricorsi giurisdizionali in Pennsylvania, uno degli Stati chiave. Non è certo, se dovesse vincere Harris, che Trump, visto il precedente del 2021, accetti il risultato, anche perché questa volta, a sconfiggerlo sarebbe una donna di colore, fattore non secondario nella prospettiva di Trump.

In alcuni casi, nella storia degli Stati Uniti, l’accettazione dei risultati elettorali, pur se di misura, ha costituito un test importante per la tenuta dello Stato di diritto (Bush vs. Gore nel 2000) ed è fortemente auspicabile che la tradizione prosegua. In ogni caso, concordo con la dichiarazione del politologo Robert Kagan, che ha lasciato il Washington Post qualche giorno fa per protesta al rifiuto di Jeff Bezos di far dare al giornale l’endorsement a Kamala Harris, che il popolo americano abbia “perso l’elezione indipendentemente da chi la vince perché tanti americani sono pronti a eleggere qualcuno che ha mostrato nel modo più chiaro possibile di non avere alcun rispetto per il sistema democratico”.

*Docente di Diritto Pubblico Anglo-americano
Università della Calabria

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