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La vicenda, arrivata fino ai supremi giudici, era partita da un carcere calabrese
ROMA – Rischia sanzioni chi in carcere si mette in sciopero della fame per protestare pacificamente contro le cattive condizioni in cui si svolge la reclusione. Confermata infatti dalla Cassazione la sanzione disciplinare dell’esclusione dalle attività in comune per nove giorni, nei confronti di due detenuti di un carcere calabrese che, insieme ad altri compagni, avevano iniziato lo sciopero della fame per protestare contro la cattiva qualità del vitto, rifornito da una ditta esterna, e per avere almeno l’acqua calda per lavarsi.
La protesta, pacifica, aveva preso il via dopo che la richiesta inoltrata dai detenuti alla direzione del carcere, nella quale si chiedeva il rispetto dei diritti «basilari di una vita carceraria dignitosa», non aveva ricevuto alcuna risposta. Anzi, la risposta c’era stata: la sanzione disciplinare con la quale i detenuti individuati come capi dello sciopero venivano puniti con nove giorni di “carcere duro”.
Contro la conferma del provvedimento convalidato dal Tribunale di sorveglianza di Catanzaro nel 2015, due dei detenuti “ribelli” hanno reclamato in Cassazione sostenendo che il rifiuto del cibo non è una “sommossa” e che «la pesante risposta sanzionatoria non era giustificata da una reale pericolosità» della protesta ed era una netta «chiusura alla richiesta di ascolto invocata dai detenuti, di tal modo conculcati nell’esercizio del legittimo diritto all’autodeterminazione».
«Nell’alveo dell’esercizio di tale diritto – ha inoltre fatto presente la difesa dei due carcerati – costituzionalmente e convenzionalmente garantito, doveva essere inquadrata la scelta del ricorso allo sciopero della fame, opzione che sovente rappresenta nell’ambito carcerario l’unico mezzo per manifestare una reale situazione di disagio, di malessere fisico e psichico». Per questo, quei nove giorni di sanzione erano una risposta «ingiustificatamente severa».
I supremi giudici, però, non hanno avuto nulla da obiettare e hanno convalidato la decisione del magistrato di sorveglianza per cui il digiuno era «un’azione dimostrativa di scontro e di ostilità verso le istituzioni e, dunque, pericolosa e sediziosa, perchè idonea in concreto a scuotere e porre in pericolo l’ordine interno all’istituto, a turbare il normale svolgimento della vita carceraria, con il pericolo concreto di degenerare anche in un ingestibile allarme sanitario per il numero delle persone coinvolte nello sciopero della fame».
Concludono i verdetti degli “ermellini” – 5315 e 5316 della Prima sezione penale – che la decisione della Sorveglianza «non merita censura».
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