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Senza uno scatto d’orgoglio l’Europa è condannata all’irrilevanza ma il voto Usa ci ipnotizza e noi scordiamo la sua pochezza
Siamo in preda ad un paradosso. Tutti concentrati con lo sguardo verso Washington, partecipiamo da “ultras” alla contesa Harris-Trump, ci chiediamo da mesi quali scenari ci attenderanno in caso di un possibile ritorno del tycoon alla Casa Bianca o nell’eventualità di una conferma democratica, ma nella persona della vicepresidente Harris. D’altra parte, sembriamo disinteressati alla crisi multiforme che attraversa il continente europeo, quasi che la soluzione a tutti i nostri mali o l’eventuale definitiva chiusura dei conti possano provenire soltanto dall’esterno. Abbiamo dunque perso il minimo margine di manovra? Sprofondati in un declino che si autoalimenta, utilizziamo come diversivo la contesa per la Casa Bianca? Sarebbe forse meglio ripartire dalle nostre molteplici crisi e dalle altrettanto determinanti assenze ingiustificate che in larga parte da queste dipendono.
L’attuale impasse europea è prima di tutto una profonda crisi della sua leadership franco-tedesca. Non si tratta soltanto dei rapporti tra le due sponde del Reno. Il “motore” gira a vuoto perché i due “pistoni” stanno vivendo profonde situazioni di squilibrio. A Parigi si è di fronte ad un “tornante del rigore” che ricorda la radicale inversione di rotta operata da Mitterrand nel 1983, sullo sfondo di una congiuntura politico-istituzionale che sta mettendo a durissima prova la governabilità da sempre garantita dalle istituzioni della V Repubblica. Berlino sta pagando il lungo periodo nel corso del quale Merkel si è limitata ad amministrare i frutti del riformismo impostato dal suo predecessore Schroder.
Come spesso accade quando si asseconda in maniera opportunistica il flusso della storia, giunge il momento in cui questa ti chiede il conto. E nel caso tedesco, la richiesta avviene proprio nel momento meno opportuno, con una guerra ai confini e una debole e litigiosa coalizione al governo del Paese.
In secondo luogo, la crisi europea è di natura politico-istituzionale, direttamente ascrivibile alle istituzioni continentali. E in particolare alla avvilente conferma di von der Leyen per il suo secondo mandato alla guida della Commissione. Dopo aver proposto un collegio di commissari dominato dai popolari, attribuendo competenze con sovrapposizioni e intrecci tali per cui in ultima istanza sarà sempre la presidente ad avere l’ultima parola, alcune recenti mosse degli stessi popolari a Strasburgo confermano una tendenza potenzialmente distruttiva del processo di integrazione. Il PPE a guida Weber in almeno due casi ha sommato i suoi voti a quelli delle destre radicali europee. Per far passare provvedimenti o affossarne altri relativi ad uno degli argomenti più sensibili per l’opinione pubblica (le migrazioni).
Ma più in generale appare in bilico la tenuta di quella che dovrebbe essere la maggioranza di von der Leyen: popolari, socialisti, liberali ed ecologisti. Come sui migranti anche sulla transizione ecologica o sull’invio di armi e finanziamenti a Kiev o ancora sull’opportunità di fare debito comune, la presidente della Commissione pensa di procedere con maggioranze ogni volta variabili?
A due crisi preoccupanti si somma poi una totale assenza dell’Europa istituzionale. Almeno quanto dei singoli e più autorevoli Paesi europei. Si pensi ai già citati Francia e Germania a cui aggiungere Spagna, Polonia, la stessa Italia (attiva più negli slogan che nei fatti). Per non parlare del Regno Unito, chiuso nella sua irrilevanza post-Brexit. Basti citare i tre fronti più drammaticamente caldi e la “trasparenza europea” è avvilente. Sul fronte ucraino sembrano immagini di repertorio antiche di anni l’attivismo di Macron e del premier italiano Mario Draghi. In quello che è sempre più a tutti gli effetti un braccio di ferro Mosca-Washington, con effetti devastanti soprattutto per la popolazione ucraina, l’Europa si divide, mostra stanchezza quando non si autoflagella su presunte responsabilità occidentali nell’aver innescato il disegno di Putin.
Che cosa dire poi se lo sguardo si sposta su Gaza, Beirut o Teheran? Anche qui a colpire è l’assenza più completa di qualsiasi programma o attivismo diplomatico dei principali attori europei nell’area. E cosa altro aggiungere se si passa a valutare la pericolosa tendenza ad opporre un fronte di Paesi del cosiddetto “sud globale” (di recente riuniti per il vertice Brics alla “corte” dello zar in quel di Kazan) a quello dell’Ovest liberal capitalista a guida statunitense. In questa nuova contesa tra “West and the Rest” qual è il peso specifico europeo?
La storia può fornirci qualche chiave di lettura non banale. Le radici profonde di questa irrilevanza europea erano tutte scritte nel Grand Design, così come pensato da F.D. Roosevelt ad inizio anni Quaranta del secolo scorso, in pieno secondo conflitto mondiale. La cosiddetta Guerra dei trent’anni più l’oramai travolgente processo di decolonizzazione avevano segnalato l’avvio dell’ultimo “giro di giostra” per il Vecchio Continente. In definitiva solo l’uscita di scena dello stesso Roosevelt (morto nell’aprile 1945) e l’avviarsi della Guerra fredda, non a caso da alcuni studiosi definita l’ultimo conflitto per l’Europa, hanno creato le condizioni per una sorta di rendita di posizione inaspettata. Una volta però chiusa la parentesi della Cold War, il Vecchio Continente si è trovato ad un bivio.
Da un lato la via di un’integrazione sempre più accentuata e di un desiderio di trasformarsi nel vero perno e facilitatore nello spazio balcanico, in quello post-sovietico ma anche in quello mediterraneo all’incrocio dei tre continenti (europeo, africano e asiatico). Perseguire tali obiettivi avrebbe significato portare a termine la revisione dei Trattati, completare Maastricht e dotarsi di una politica industriale e poi di difesa. L’altra via era quella di limitarsi ad improvvisare e ben presto subire tutte le principali crisi della fase del cosiddetto unipolarismo. Dalla ex Jugoslavia sino all’invasione statunitense dell’Iraq, passando per la cosiddetta guerra al terrorismo del dopo 11 settembre e per le sciagurate scelte strategiche di dipendenza dall’energia russa e dalla produzione industriale cinese.
Quale sia stata la strada scelta non vale nemmeno la pena ricordarlo. L’odierna “ininfluenza europea” è lo specchio del reiterare la “non scelta” e la logica del breve periodo che prevale sullo sguardo lungo.
In un recente contributo apparso su www.rivistailmulino.it , il suo direttore Paolo Pombeni, partendo dall’espressione “Terza guerra mondiale a pezzi” lanciata qualche tempo fa da Papa Francesco, ha giustamente spiegato quanto vi sia di concreto in questo scenario così infausto. E ha altrettanto meritoriamente sottolineato la necessità di concentrarsi e riflettere su una possibilità che appare sempre più concreta. Oltre a concordare con Pombeni, occorre aggiungere che qualsiasi riflessione costruttiva non può che partire da uno scatto d’orgoglio. Da una volontà di rottura di quella che ad oggi è una imbarazzante irrilevanza europea. Se si accetta di assecondare tale destino, non farà poi tanta differenza chi sarà eletto alla Casa Bianca. Il rischio concreto è quello di essere in ogni caso bypassati in maniera più dolce, o in modo più brutale, a seconda delle opzioni.
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