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Parla Maysoon Majidi, l’attivista curdo-iraniana scarcerata dal Tribunale di Crotone dopo dieci mesi di detenzione


CROTONE – Forse l’odissea giudiziaria da lei vissuta e quella dei migranti in fuga da guerre e massacri saranno al centro di uno dei suoi futuri lavori teatrali o cinematografici. Almeno questo è il suo «sogno». Ne abbiamo parlato con Maysoon Majidi, l’attivista curdo-iraniana sotto processo a Crotone con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, poche ore dopo la sua liberazione disposta dal Tribunale pitagorico per il venir meno dei gravi indizi di colpevolezza. Si trova a Reggio Calabria, ospite nello studio legale del suo difensore, l’avvocato Giancarlo Liberati. Raggiunta telefonicamente, accetta di parlare della sua «prima notte senza pillole» dopo dieci mesi da «incubo», delle sue preoccupazioni per il futuro ma anche dei suoi sogni e della sua speranza di giustizia.


Come è stata la sua prima notte fuori dal carcere, dopo dieci mesi?

«Non ho dormito. È stata la prima notte senza pillole in dieci mesi. Avevo paura di dormire. Come se fosse un brutto sogno da cui finalmente sento di essermi svegliata. Un incubo di dieci mesi».


Lei che si è sempre battuta per i diritti umani ha respinto sin dall’inizio l’accusa di essere in qualche modo coinvolta nei traffici. Intende riprendere la sua attività? Parlerà di questa esperienza in uno dei suoi futuri lavori?

«Certo, per il futuro il mio sogno è fare qualcosa per spiegare il perché di questo viaggio di rifugiati. Perché le persone fanno questi viaggi. Per sette anni ho svolto tantissima attività per i diritti umani, per i diritti delle donne, dei popoli oppressi. Mi sono occupata di arte, di teatro, di politica. Avevo due canali social. In Kurdistan abbiamo svolto tante manifestazioni. Ho fatto più di 700 video in cui parlo della storia e della cultura del Kurdistan. Su nessun giornale ho letto i motivi per cui mi trovavo in carcere. Sono accusata di essere una scafista, di aver aiutato il capitano, di essere stata sopra coperta insieme al capitano e di aver dato da bere e mangiare ai migranti. Io non capivo come fosse possibile. Era una barca di rifugiati, non il Titanic. A bordo c’erano 70 persone che vomitavano e hanno trascorso diversi giorni in mare senza un bagno. Io non ho fatto niente, non avrei potuto fare quello che dicono, anche perché tra i passeggeri ero quella forse stava più male. E poi, se dai una bottiglia d’acqua sei scafista? Se vai sopra per prendere un po’ aria sei scafista? Non capisco se sia più tragedia o commedia».


Il suo impegno, quindi, proseguirà?

«Ho un nemico grandissimo che è il governo islamico. Ho fatto manifestazioni per la libertà e per questo ho ricevuto tanti attacchi.  Anche insieme a mio fratello ho fatto tanta attività. Ma in Iran e in Iraq non si può manifestare per la libertà altrimenti non avremmo fatto la scelta di fuggire. Credo nel secolarismo. La religione deve stare da una parte e la politica dall’altra. La religione non deve comandare il popolo. Ora sono preoccupata per mio fratello, in Germania c’è un problema col permesso di soggiorno».

Quali sono le prime cose che Maysoon Majidi farà da libera? L’avvocato dice che lei gli ha chiesto di accompagnarla da un parrucchiere….

«Andrò anche dal parrucchiere. Ma innanzitutto penso alla salute. Peso 38 chili. Appena muovo un po’ la testa sento battere forte il cuore. Non sto bene in salute. E poi ci sono ferite psicologiche ancora aperte. Dopo dieci mesi ho finalmente rivisto mio fratello (anche se in videoconferenza, durante il processo, ndr) e ho sentito la sua voce. Ho capito che mio fratello sta più male di me. Ho sentito che parlava di attacchi di panico. La prima cosa da fare è stare meglio e ci vuole tempo. Se non c’è forza, non fai niente».


Affronterà la prossima udienza da libera. Confida nell’assoluzione?

«Attendevo di vedere giustizia. Spero di essere assolta, ma la vita è una sorpresa continua. Anche durante l’udienza mi aspettavo cose positive, spero sempre. Non posso dirlo con certezza, ma spero. Sono felice se vedo giustizia. Una cosa che mi ha fatto male è stata la parola “pericolo di fuga” (il motivo per cui per cinque volte è stata respinta l’istanza difensiva per la revoca della misura cautelare, ndr). È stato come gettare sale su una ferita aperta. Così la ferita psicologica arrivava fino al cuore».

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