X
<
>

Share
3 minuti per la lettura

Giancarlo Costabile illustra le attività seminariali del suo corso universitario di Pedagogia dell’Antimafia: «Didattica del cambiamento grazie alle esperienze di Puglisi, Diana, Milani, Livatino»


SONO riprese all’Università della Calabria le attività seminariali e laboratoriali del corso di Pedagogia dell’Antimafia attivo presso il Dipartimento di Culture, Educazione e Società, giunto al suo quattordicesimo anno di sperimentazione didattica. Il progetto nasce il 23 maggio 2011 nella vecchia facoltà di Lettere e Filosofia dell’UniCal con una iniziativa dedicata alla memoria di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, uccisi dal tritolo dei corleonesi a Capaci insieme ad alcuni componenti della loro scorta. Pedagogia dell’Antimafia è l’unico insegnamento della Pedagogia accademica nazionale con questa specificità formativa e metodologica presente nei piani di studio di Scienze dell’Educazione e Scienze pedagogiche delle università del Paese. Abbiamo discusso dei contenuti e degli obiettivi dell’educazione antimafia con il professore Giancarlo Costabile, ricercatore di Storia dell’educazione e ideatore di questa proposta didattica.

Professore, quali sono le ragioni culturali che l’hanno spinta a lavorare sulla questione del contrasto alle mafie?

«La risposta è nel discorso che Paolo Borsellino tiene a Palermo il 20 giugno 1992 dopo la fiaccolata di commemorazione per Falcone e i caduti di Capaci. Il magistrato siciliano, in quello che può essere definito il suo ‘testamento culturale’, chiarisce la vocazione pedagogica dell’antimafia che oltrepassa decisamente la sfera repressiva del contrasto alla criminalità organizzata. “La lotta alla mafia – insegna Borsellino – dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”».

La Calabria è terra di mafia. Che compito ha chi, come lei, lavora con le parole?

«La Calabria è terra di mafia. Il compito di chi, come noi, lavora sulle parole dell’educazione è costruire una pedagogia del riscatto civile in grado di rispondere ai problemi (drammatici) del territorio. Una pedagogia trasformativa capace di mettere pienamente in discussione l’ordine di potere familistico-clanico della nostra regione che non è riducibile soltanto alla ’ndrangheta poiché caratterizza il complesso delle locali classi dirigenti in ogni gaglio del vivere economico-sociale. L’antimafia è ontologicamente una pedagogia sociale destinata a produrre una didattica del cambiamento quale prassi di ri-territorializzazione culturale e educativa».

Lei definisce Pedagogia dell’Antimafia una pedagogia laica della Croce. Ci spiega cosa intende sostenere?

«Pedagogia dell’Antimafia è una pedagogia laica della Croce poiché lavora sul concetto di ri-costruzione delle relazioni di prossimità oggi sfregiate dalla società dello scarto che il Santo Padre, Francesco, critica quotidianamente. L’antimafia è contrasto alle culture della sudditanza e dello sfruttamento che producono subalternità e disuguaglianze territoriali e sociali. Le esperienze di Padre Pino Puglisi e don Peppe Diana, ad esempio, ma anche il cristianesimo di Rosario Livatino, rappresentano un alfabeto educativo orientato alla ri-generazione delle relazioni di umanizzazione.
La Croce, laicamente intesa, è simbolo di accoglienza, custodia e tutela della dignità umana. Papa Bergoglio, ricordando don Milani a Barbiana il 20 giugno 2017, nel cinquantesimo anniversario della sua morte, spiega che l’I Care del Priore è traducibile in questa affermazione densa di valore pedagogico: «Mi importa di voi». Ogni anima, dice don Milani, è un universo di dignità infinita che deve essere amata, aggiungo io, con lo stesso Amore (scritto doverosamente con la lettera maiuscola) che Giuseppe ha per Gesù perché la paternità va oltre la dimensione biologica.
La camorra uccide don Peppe Diana nel giorno del suo onomastico, il 19 marzo 1994, mentre celebra la messa del mattino: simbolicamente spara alla paternità come esercizio umanizzante e universale di responsabilità politico-sociale. L’Amore di Giuseppe è dunque il manifesto laico di una pedagogia della ‘cura’ e della ‘fraternità’ che si fa profezia di una parola trasformativa lungo il cammino di una difesa intransigente dei diritti civili e sociali di ogni essere umano. Per ri-scoprire laicamente il divino nell’umano, emancipandolo, in tal modo, da ogni condizionamento determinato dalla pedagogia di Caino».

Share

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE