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Magistratura e Governo ai ferri corti: è bastato un decreto del Tribunale per rinfocolare il conflitto tra potere politico e giudiziario


Magistratura e Governo di nuovo ai ferri corti.
È bastato un decreto emesso dal Tribunale di Roma, con cui si è deciso di non convalidare il trattenimento di dodici migranti all’interno del centro di permanenza per il rimpatrio di Gjader, in Albania, per rinfocolare un conflitto, quello tra potere politico e potere giudiziario, che si trascina da decenni e che sembra ormai senza fine.
Le accuse lanciate nei confronti dei giudici sono piuttosto gravi, al punto che il provvedimento viene definito dal ministro della giustizia addirittura abnorme, cioè al di là dei poteri attribuiti all”organo giudiziario ed in contrasto con i principi del diritto.

Si rinnova la litania dei giudici politicizzati, che metterebbero a rischio la sicurezza del paese.
Di fronte a questo scenario il cittadino, che con questa materia ha scarsa confidenza, appare a dir poco sconcertato e disorientato.
Perciò, cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
Se ragioniamo applicando le categorie del diritto, il decreto contestato appare conforme ai principi consolidati, vigenti in materia, sanciti non solo dalla legge e dalla Costituzione italiana, ma anche dalle Convenzioni internazionali e dalle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea.

E comunque sia, non può affatto definirsi abnorme.
Invero, i giudici del tribunale di Roma si sono attenuti alla direttiva europea e all’interpretazione che di essa è stata fatta da una recente sentenza
della Corte di Giustizia europea.
La contestazione mossa dal Governo riguarda la possibilità per i giudici di stabilire se i paesi, da cui provengono i migranti (nel caso di specie il Bangladesh e l’Egitto) siano o meno sicuri. Ebbene, non vi è dubbio che qualora l’elenco stabilito dalla normativa nazionale sia in contrasto con il diritto internazionale sovraordinato, i giudici sono tenuti a disapplicare la normativa interna.
Nel caso di specie la CGUE ha dato un’interpretazione ancora più stringente della direttiva europea.

Vero è che l’interpretazione sostenuta dal Tribunale di Roma, come ogni attività interpretativa riguardante questioni complesse, in cui coesistono fonti normative eterogenee, presenta margini di opinabilità.
Tuttavia, di fronte ad un provvedimento che si ritiene non condivisibile, l’unico rimedio giuridico per dimostrare la fondatezza delle proprie ragioni è quello di impugnarlo davanti ad un giudice superiore.
Se salta questo principio, salta lo Stato di diritto.

Pertanto, l’accusa rivolta ai magistrati di essere politicizzati, per aver sostenuto un’interpretazione difforme da quella del Governo, è inaccettabile, avendo i giudici motivato il proprio convincimento difforme, attraverso il richiamo ad una fonte sovraordinata a quella nazionale.
Nel corso di unintervista al quotidiano “La Repubblica” il presidente del Senato ha invocato il rispetto per le prerogative della politica. Il richiamo è giusto e sacrosanto, senonché, in un sistema costituzionale basato sul principio della separazione dei poteri, analogo rispetto deve esserci anche da parte della politica nei confronti della magistratura, chiamata ad applicare le leggi che la stessa politica approva, essendo i giudici soggetti soltanto alla legge (art. 101 Cost.).

E nel nostro ordinamento giuridico la legge fondamentale è la Costituzione, la quale, nel regolare la condizione giuridica dello straniero, all’art.10 richiama l’osservanza delle norme e dei trattati internazionali, che riconoscono agli immigrati, anche quelli irregolari, i diritti umani fondamentali.
Il giudice italiano, pertanto, non sarebbe fedele al compito istituzionale assegnatogli dalla Costituzione, se non applicasse anche le norme previste dalla CEDU e dalla Corte di Giustizia, norme che – va ribadito- prevalgono sul diritto interno.
E questo principio deve essere applicato anche in relazione all’accertamento delle condizioni per definire un paese sicuro, ai fini del trattenimento degli immigrati.
Se così non fosse, ne andrebbe di mezzo la stessa collocazione dell’Italia nell’Europa, che si fonda sul rispetto di questi principi.

Purtroppo, in questo clima di tensione istituzionale finisce per passare in secondo piano la questione sostanziale sottostante la normativa, che riguarda la politica di gestione del fenomeno migratorio, la quale dovrebbe tendenzialmente favorire l’accoglienza.
Con la precisazione che, come ha avuto modo di dichiarare ieri il vicepresidente della Cei: “I migranti non sono pacchi da sbattere da una parte all’altra”.
Allo stesso tempo, però, occorre evitare che l’immigrazione provochi il degrado dei diritti e dei servizi sociali della nostra comunità.
Chi viene in Italia per delinquere deve sapere che da noi il crimine non è più conveniente che nei paesi di origine.

Quindi, occorre una politica di generosa accoglienza, accompagnata però da un fermo ed intransigente contrasto alla criminalità legata all’immigrazione, nello spirito di quel patto sociale sancito dai nostri costituenti.
Un fenomeno epocale come l’immigrazione, che interessa soprattutto l’Italia, può essere l’occasione per una scommessa straordinaria, che si può vincere se si ragiona con la cultura della legalità, coniugata con il principio di solidarietà, e collegando i comuni doveri con la capacità di estendere i diritti e di includere nuove popolazioni.
Questa scommessa andrebbe fatta a maggior ragione in una regione come la Basilicata, laddove una lungimirante politica degli ingressi degli immigrati potrebbe invertire fenomeni preoccupanti, quali il calo costante delle nascite e lo spopolamento soprattutto delle zone interne della regione, prima che sia troppo tardi per rilanciare lo sviluppo economico e sociale.

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