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Una giovane collega, alle prese con la tesi di laurea, mi ha chiesto a bruciapelo: “Qual è il servizio che ti è rimasto nel cuore?”. Bella domanda: ho tergiversato per non rispondere. Ma lei ha insistito. Ho dovuto riflettere un po’. Poi le ho detto: «Quando sono andato a intervistare il guardiano del faro di Capo Spartivento». Era il 1999. Un caldissimo pomeriggio di luglio. Com’è noto Capo Spartivento si trova all’estremo lembo della Penisola, collocato tra il 38° Parallelo, alla periferia sud di Reggio Calabria, e la spiaggia di Brancaleone, luogo della memoria di Cesare Pavese per il suo soggiorno forzato durante il confino fascista. E lì scrisse tra le opere più belle. La leggenda ci racconta dell’ Heracleum Promontorium, un nome che rimanda al mito di Ercole che si riposò su quel poggio dalle fatiche. Punto finale della penisola italiana che fu percorsa dai navigatori greci, cartaginesi e romani. Capo Spartivento cuore della Bovesìa, l’area grecanica dove una minoranza parla ancora il greco antico nei borghi che risalgono i primi contrafforti dell’ Aspromonte orientale. Un sito di una bellezza ancora incontaminata dove è possibile vedere le lucciole che, come scrisse Pier Paolo Pasolini in un memorabile articolo sul Corriere della sera, «questa civiltà ha fatto scomparire». Il paesaggio di Capo Spartivento è quello classico della macchia mediterranea con tonalità di colori tutti particolari. In questa lingua di terra la zagara la fa da padrone; si sente il profumo intenso e raro, nel periodo della fioritura, del bergamotto e del gelsomino; e d’estate le cicale e fichi d’india maturi scendono a strapiombo sul mare scavalcando la strada e la ferrovia. Il complesso del faro è un insieme di piccoli locali su cui poggia la grande cupola di vetro del faro il cui punto focale è posto a 64,50 metri dal livello del mare. Si arriva – o meglio si arrivava perché molti fari sono stati dismessi e non so se Capo Spartivento sia ancora manuale o automatico – in punta di piedi perché l’impatto è emozionante. Una sensazione unica. Un silenzio surreale avvolge i muri imbiancati della struttura. Il custode mi disse subito di non chiamarlo “guardiano del faro” ma semplicemente farista. C’è una targa della Marina Militare e una piccola lapide che sentenzia: “…acceso la prima volta 10 settembre 1867”. 141 anni, perbacco! Una sorta di cenobio per il guardiano del faro, un mestiere estinto o in via d’estinzione. Per il farista, come ha voluto che lo chiamassi, che si allontana vale la massima di Hery David Thnoreau: «Non ho mai trovato il compagno che mi facesse così buona compagnia come la solitudine». Il marmo continua: “Latitudine boreale 37° 53’ 18’’ “. Occorre, però, una spiegazione: questo è un dato riferito al meridiano di Parigi, dal 1884 esiste invece il parametro del meridiano fondamentale di Greenvich (Londra) e quindi oggi la posizione è: latitudine 37° 55’ 5’’, longitudine 16° 02’ 7’’, rispetto a quando si calcolava con carta e matita c’è lo scostamento di appena un grado. Il faro, che un tempo fu anche radiofaro (linguaggio Morse), ha un sistema elettrico di lampada alogena a 110 volt di tipo americano e una riserva a batteria. In oltre cento anno si è passati dalla combustione all’olio d’oliva alla nafta (1935) sino all’odierna elettricità. La lampada fa il giro completo (perché alle spalle non disturba il territorio) a 360 gradi gettando il suo fascio di luce per 32 miglia marine, pari a circa 60 chilometri. Il giro dura 32 secondi emanando ogni 8 secondi lampi di luce. Il faro, che si accende mezz’ora prima del tramonto e si spenge mezz’ora dopo il sorgere dell’alba, in pratica prende amorevolmente le navi da Punta Stilo e li accompagna al prossimo faro di Capo d’Armi e viceversa. Il nome del farista è Francesco Casile, allora dipendente civile del Ministero della Difesa. Prese servizio nel 1995 dopo un periodo di apprendistato nel faro di Punta Stilo. Per lui non c’erano né ferie né turni di riposo. Solo una vita di eremita. Che ha condiviso con la famiglia. Un filosofo di terra che guarda il mare. Quando lo andai a trovare mi accolse nel terrazzino, una macchia di fragola in un ambiente rigorosamente bianco, mentre stendeva il bucato. Era solo perché la moglie e figli erano andati in paese. Mi fece visitare tutto il complesso. L’ interno tutto ordinato e lindo con un arredo tipico della marineria. Al momento del congedo mi venne un groppo alla gola. Mi feci coraggio, pensando che la domanda che gli stavo ponendo fosse banale, e gli chiesi: «Quante navi vede passare al giorno?». “Mai contate anche se alcune riesco a riconoscerle dal rumore», mi rispose. Rimasi stupefatto. Riconoscere una nave dal rumore? “Per esempio – mi disse togliendomi dall’imbarazzo – ogni martedì passa un mercantile che ha impresso sul fianco il Leone di San Marco, nelle giornate di bonaccia riconosco questa nave dal rumore”. Per la cronaca la giovane collega è rimasta incantata da questo ricordo professionale.
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