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Videochiamate dal carcere di Pasquale Nicoscia e Salvatore Comberiati

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Il linguaggio social delle nuove leve della cosca di ‘ndrangheta: videochiamate dal carcere postate su TikTok; ma il caso Cutro non è isolato


CUTRO – Postavano videochiamate su TikTok dopo i colloqui in carcere col padre dal quale, secondo l’accusa, ricevevano direttive per la riorganizzazione della cosca. Il linguaggio delle nuove leve dei clan cutresi è più social rispetto a quello dei veterani. Vito Martino, storico componente del gruppo di fuoco della cosca capeggiata dal boss Nicolino Grande Aracri, pur essendo detenuto avrebbe impartito ordini ai figli Salvatore e Francesco e alla moglie Veneranda Verni nella fase successiva al pentimento (poi rivelatosi una farsa) del capocrimine ergastolano. All’uscita dal carcere, i figli postavano video in cui si riconosce il padre che parla con loro in videochiamata. Sorridono.

Dando una scorsa ai faldoni dell’inchiesta che l’altra notte ha portato all’operazione Sahel, con cui la Dda di Catanzaro e i carabinieri della Sezione operativa della Compagnia di Crotone hanno stroncato sul nascere l’ascesa della famiglia Martino, si capisce che poco prima di mettersi in mostra sui social avevano discusso di strategie mafiose. Di come espandere la loro influenza per occupare il vuoto di potere lasciato dal boss che ormai perdeva prestigio negli ambienti criminali. E di come scongiurare un’eventuale guerra di mafia con la famiglia Ciampà, che rialzava la testa e trovava appoggi nel boss della vicina Papanice, Domenico Megna, che in quella fase rivestiva una posizione di supremazia nel panorama della criminalità organizzata del Crotonese e voleva annettere Cutro al suo comando approfittando di una situazione fluida.

LEGGI ANCHE: Operazione Sahel, lo scompiglio nel clan dopo il (finto) pentimento di Nicolino Grande Aracri – Il Quotidiano del Sud

VIDEOCHIAMATE POSTATE DUI SOCIAL: TIKTOK, LA VETRINA DELLE COSCHE MAFIOSE NON SOLO DI CUTRO

L’ostentazione dell’appartenenza alla ‘ndrangheta avrebbe trovato un canale di comunicazione ideale nella piattaforma i cui vertici proprio di recente hanno mostrato la volontà di rimuovere i contenuti controllati dalle mafie, incontrando il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, e lo storico delle organizzazioni criminali Antonio Nicaso, che da tempo studiano il fenomeno. Una piattaforma, TikTok, prediletta dalla camorra, ma a quanto pare non disdegnata neanche dalla ‘ndrangheta. Soprattutto quella del Crotonese, una delle più lungimiranti sotto il profilo dell’evoluzione tecnologica, come si è visto in occasione di altre inchieste condotte dalla Dda di Catanzaro, che hanno svelato l’interesse per le piattaforme del trading clandestino on line grazie alle quali le cosche sarebbero in grado di muovere cifre a sei zeri con un clic.
Ma si evolve anche il linguaggio dei clan, attraverso un’autonarrazione distorta, mediante la condivisione di comportamenti che denotano un certo fascino per un mondo oscuro e cercano approvazioni in pubblico stimolando, forse, emulazioni e proselitismo.

GLI ALTRI CASI

Scorrendo la piattaforma TikTok, si nota che anche giovani congiunti di altri pezzi da novanta della criminalità organizzata del Crotonese la usano da tempo per postare foto e video dal carcere. Chissà se lo fanno per lanciare messaggi. Sorridono sempre. Sorridono tutti. Forse per rassicurare qualcuno. Forse perché sono sinceramente felici di incontrare i loro familiari. O forse per altro. Colpisce che tra loro ci sia, oltre al killer cutrese Vito Martino, l’ergastolano riarrestato nell’operazione Sahel, anche Pasquale Nicoscia, il boss di Isola capo Rizzuto che si era federato proprio con Grande Aracri per scalzare dal comando a Cutro e Isola le famiglie Dragone e Arena. Un mammasantissima.

C’è anche Salvatore Comberiati, fratello di Nicola, capobastone di Petilia Policastro. Anche loro parlano coi familiari dai penitenziari in cui sono ristretti e sorridono. Poi ci sono i gruppi criminali di etnia rom che sono ancora più plateali e festeggiano con bottiglie di champagne l’uscita dal carcere di Siano, a Catanzaro. Ma gli esempi che si potrebbero fare sono molti altri. E sembrano tutti volti a rafforzare un’estetica dell’appartenenza mafiosa.

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