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Non votando per von der Leyen, Meloni si è allontanata dalla stanza decisionale europea e i segnali dalla Ue non dicono nulla di buono
Non bastano le rassicurazioni di Manfred Weber, presidente del Partito popolare europeo e capogruppo all’Europarlamento che proprio dalle colonne del Corriere della Sera ha voluto inviare un messaggio distensivo al Belpaese e alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni: «Il mio amico Fitto conosce perfettamente l’Europa. E non ha nulla da temere da nessuna domanda. È un costruttore di ponti e ha dimostrato competenza economica, ad esempio quando ha attuato con successo il Pnrr. Sarà una grande risorsa per la prossima Commissione».
E non basta nemmeno la solidarietà di chi come Carlo Calenda, leader di Azione e collocato in Europa non certo con il centrodestra, ha fatto sapere che bisogna appoggiare il ministro degli Affari europei.
Il punto qui sembra essere un altro. E non riguarda il profilo di Raffaele Fitto che viene apprezzato trasversalmente anche per la sua storia di rito democristiano.
Il punto qui sono gli ultimi tre mesi di Giorgia Meloni. Da giugno la presidente del Consiglio ha cambiato postura, forse perché spaventata dal vannaccismo e dai malumori diffusi alla sua destra.
Perdendo la bussola iniziale e puntando tutto prima su una campagna elettorale muscolare e poi su un post campagna elettorale altrettanto muscolare tra lo spettro di un complotto, il caso Sangiuliano-Boccia, le forzature sull’autonomia differenziata e sul premierato.
Chiusa nel fortino di Palazzo Chigi, Giorgia Meloni ha preferito restringere il raggio di azione, anziché allargarlo. Ogni scelta nel segno della divisività. Ogni parola per ingraziarsi il popolo di destra-centro. E, va da sé, ogni presa di posizione utile a farle dire: «Avete visto? Io non sono cambiata…».
In questo contesto ha deciso di non votare Ursula von der Leyen. E così, in un amen, l’inquilina di Palazzo Chigi si è allontanata dalla stanza decisionale europea.
Ha fatto i conti senza l’oste? O è consapevole di quello che sta per succedere? Tanti osservatori sostengono che ci sia stata una sottovalutazione degli effetti negativi a cascata.
«Non puoi prima camminare a braccetto con Ursula e poi scaricarla sulla riconferma. È stato tafazzismo puro» sussurra in Transatlantico un parlamentare esperto che in politica ne ha viste tante.
Tutto questo per dire che oggi non basta veicolare dispacci di questo tenore, come quello diffuso ieri pomeriggio e firmato fonti di Fratelli d’Italia: «Nel 2019, dopo l’audizione parlamentare di Paolo Gentiloni, da Ecr arrivò il via libera a proseguire con il processo di nomina a Commissario Ue. Raffaele Fitto, allora presidente di Ecr, partecipò personalmente all’audizione di Gentiloni in commissione Economia e successivamente il nostro coordinatore, il belga Van Overtveldt, dopo aver ascoltato il parere di Fitto si espresse a favore della nomina del commissario italiano».
I segnali che arrivano dalla Ue non lasciano presagire nulla di buono. La trattativa sul nome di Raffaele Fitto si è incagliata. Cresce il sospetto di un avvertimento alla Commissione a non procedere con quella designazione, del tentativo di bruciarla. Anzi, l’impressione è che il caso Fitto possa essere usato come pretesto da una parte del Ppe, e soprattutto da socialisti, liberali e Verdi, per chiudere le porte al dialogo con la destra.
Quest’ultimo scenario dovrebbe essere scongiurato dalla presidente del Consiglio che, ancora oggi, ha le carte in mano per far rientrare i conservatori nella stanza dei bottoni e per arginare la destra sovranista di Matteo Salvini e Marine Le Pen.
In questo quadro hanno un peso le elezioni americane. Se la spuntasse Donald Trump, ci sarebbe un effetto immediato anche in Europa su quel pezzo di destra che ha sempre sposato la causa del Tycoon statunitense. E se vincesse Kamala Harris ci sarebbe invece un sospiro di sollievo da parte di socialisti, liberali e popolari.
Le prossime settimane saranno dunque decisive per l’inquilina di Palazzo Chigi, che deve decidere quale rotta intraprendere. Tanto dipenderà dal risultato finale delle nomine europee. Se dovesse ottenere una vicepresidenza esecutiva per Raffaele Fitto, la premier potrebbe dire di aver avuto ragione.
Discorso diverso in caso contrario. A quel punto inizierebbe una fase complicata. Dove non basterebbe dire di non essere non difficoltà, di aver gestito al meglio le trattative europee fino a qui, e di governare fino alla fine della legislatura.
I dossier da gestire sarebbero diversi. Dal Pnrr alle riforme, dalla manovra di bilancio, che dovrà essere nel segno del rigore, all’ipotesi rimpasto, che oggi rimane accantonata ma è sempre lì. Per non parlare degli appuntamenti elettorali di ottobre, dove il destracentro disputerà tre partite molto difficili in Liguria, Umbria ed Emilia Romagna. Il rischio molto alto è di perderle tutte e tre.
Dice la deputata di Azione Giulia Pastorella: «Il governo Meloni deve cambiare atteggiamento verso le istituzioni europee, perché se continua a non essere collaborativo non può poi aspettarsi che all’Italia vengano date responsabilità». Insomma, la domanda resta sospesa: Meloni cambierà atteggiamento?
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