Lo Stretto visto da Ecolandia
4 minuti per la letturaDopo gli incendi ad Ecolandia, l’appello di Polimeni, responsabile tecnico del parco di Reggio bruciato due volte in 5 mesi: «Diteci a che punto sono le indagini»
Manca veramente molto poco, ed Ecolandia tornerà ad essere quello che era vent’anni fa: il luogo delle corse clandestine dei cavalli e dei bracconieri che sparavano sugli uccelli migratori, il simbolo del degrado e dell’illegalità. Che il fuoco arrivi per due volte mentre gli altri forti dello Stretto aprono le porte, è un aspetto che fa ancora più rabbia. Chi vuol male al parco ludico-tecnologico di dieci ettari che ha ridato vita ad una batteria militare dell’Ottocento, sulla collina di Arghillà, nel quartiere più difficile della città di Reggio Calabria?
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Il giorno dopo l’incendio del ristorante, il responsabile tecnico di Ecolandia Piero Polimeni è ancora sconvolto. È un ingegnere che ha fatto una scelta di vita, ha lavorato sempre nella cooperazione e nei progetti sociali. Come se gli avessero bruciato due volte casa. E’ lui a occuparsi della sicurezza e delle luci, degli spazi e delle strutture.
«Siamo in un limbo, mai vissuta una simile condizione. Due incendi, il 7 aprile e il 9 settembre. Da una parte ci chiedono di non mollare, la Prefettura ha sempre detto che siamo un presidio di legalità. Ma siamo anche paralizzati dalla burocrazia: a marzo è scaduta la convenzione, due mesi prima abbiamo presentato al Comune la richiesta di proroga, peraltro già prevista dalle norme, per altri tre anni. Dal Cedir, e cioè dagli uffici amministrativi, ci è arrivata a sorpresa una lettera di sfratto, ad opera di una funzionaria che aveva in carico la pratica. Una misura che abbiamo contestato. Allora, dall’amministrazione ci sono arrivate mille assicurazioni: quella lettera faceva parte di un contenzioso fra Comune e Demanio, visto che l’area era stata valorizzata. Insomma, un conflitto istituzionale e noi in mezzo».
«Siamo paradossalmente soli, pur avendo progettato e costruito questo Parco con fondi comunitari. Il mio non è un sentimento di proprietà ma di servizio: stare ad Ecolandia significa far vedere che in Calabria è possibile dare un volto nuovo agli spazi abbandonati. Il nostro è un luogo di sperimentazione, ad Ecolandia sono nati i Pinqua, i grandi interventi di rigenerazione urbana di tre quartieri della città (Arghillà, Modena-Ciccarello, Zona stadio). Un punto d’incontro di professionisti, scout, presentazioni, concerti. Un riferimento culturale per tutto lo Stretto».
«Ho il fegato che è diventata una palla. Ieri sera sono stato male, perché ho visto una struttura progettata, ideata e realizzata andata in fumo. Avvilimento, rabbia, ho anche risposto male alle forze dell’ordine. A loro ho detto: siamo stati interrogati, non sappiamo nulla delle indagini, non abbiamo visto un risultato, un verbale. Non si vede un risultato, né positivo né negativo. Diteci quello che avete fatto. Ecolandia è un posto pubblico, aperto ai cittadini: abbiamo il diritto di sapere. La favola dell’incidente non regge».
«Questa estate abbiamo cancellato tutte le attività, l’anfiteatro è rimasto chiuso perché siamo vittime di questo conflitto fra le istituzioni, perché non abbiamo la titolarità del bene. Siamo custodi di un patrimonio che non possiamo utilizzare. Ora chiediamo alle istituzioni una risposta immediata, questa situazione non è più sopportabile. In questi mesi abbiamo dovuto anticipare fondi: sono otto posti di lavoro, stipendi che abbiamo continuato a pagare».
«Non possiamo nemmeno accettare l’idea di andarcene, arrenderci, chiudere. C’è qualcuno che vuole cacciarci via, ma questa sarebbe una sconfitta per tutta la città. Il Parco è la dimostrazione che un modo di salvare un territorio è possibile. Siamo stati invitati dal Comune di Messina per la rete dei forti del Mediterraneo e siamo fra i promotori dell’iniziativa. L’attacco ad Ecolandia è un attacco alla bellezza, all’educazione, alle nuove generazioni. È mio figlio che dice: papà, ho fatto bene ad andarmene, ma come fai ad occupartene ancora?».
«Ma noi no, non possiamo lasciar perdere questa esperienza. Noi lo gridiamo, quello che ci manca, al di là delle dichiarazioni e delle telefonate, è la legittimità di stare qui dopo dieci anni di impegno, con i primi progetti datati ‘98. Non possiamo far finta di essere un presidio: se il Parco non è vissuto, è condannato all’abbandono. Non sappiamo nemmeno se possiamo mettere in sicurezza gli edifici danneggiati, visto che le indagini sono in corso».
«Abbiamo messo gli uffici nei container dove prima giocavano i bambini. Con grande pena per noi, perché i box nascevano come luogo di apprendimento, con strumenti educativi per i più piccoli che imparavano l’economia circolare e del riuso. E noi temiamo che non sia finita, temiamo che la sala “Spinelli”, costruita con materiale confiscato sia il prossimo obiettivo. In quella sala ha parlato Gratteri, c’è stato il Globo Teatro festival, i concerti, i convegni, le feste. Chiediamo protezione, otto persone non possono controllare centomila metri quadri dove ci sono gli orti, 1500 alberi piantati, i percorsi. Ieri eravamo lì, e oggi ci torniamo. Aspettiamo le istituzioni, noi da qui non ci muoviamo».
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