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E’ polemica sullo Ius scholae, efficace strumento di integrazione, e puntuali le questioni di sempre legate ai mancati investimenti dell’Italia
Il Governatore della Banca d’Italia intervenendo al Meeting di Rimini, ha colpito duro: l’Italia è uno dei pochi paesi che stanziano per il servizio del debito un ammontare pressoché equivalente a quanto dedicano all’Istruzione. Il confronto non deve condurci su di una strada senza vie d’uscita e farci concludere che la spesa nel settore è troppa elevata. È vero il contrario: è l’ammontare del debito che toglie capacità di spesa a settori che dovrebbero essere dei pilastri della società futura, fondata sullo sviluppo di una nuova tecnologia che richiede competenze più diffuse e sofisticate, tali da evolvere in parallelo con le sfide di una organizzazione del lavoro in progressiva evoluzione.
L’ITALIA ASSEGNA ALLA SCUOLA MENO I 1/4 DI QUANTO STANZIATO PER LE PENSIONI
Ma ci sono altri parametri che danno da pensare: con appena un 4% sul Pil l’Italia assegna alla scuola meno di ¼ di quanto è stanziato per le pensioni; e se si va a vedere la composizione della spesa, al personale – Docente e Ata – è dedicato più del 90% della spesa. Sono quasi 1.200.000 dipendenti appartenenti al comparto Istruzione e ricerca, nel quale sono confluiti i precedenti comparti Scuola, Enti di ricerca, Università, Accademie e Conservatori.
Per dare un’idea della dimensione dell’azienda/Scuola in Italia (una istituzione gestita centralmente dal Ministero a Roma) basterebbe notare che il Pentagono negli Usa, al netto dei militari e dei riservisti, ha poco più di 740mila dipendenti civili. Eppure il Moloch dell’istruzione statale è come il sistema di fornitura e dell’irrigazione che – lo ripetono da anni quando fa caldo – spreca una quantità di acqua durante il tragitto.
Più di un ragazzo su 10 (dato del 2022, poi la situazione è migliorata negli ultimi anni) ha lasciato la scuola prima del tempo. Più precisamente l’11,5% dei giovani che hanno tra 18 e 24 anni, come ha calcolato Eurostat. È il cosiddetto fenomeno della dispersione scolastica, ovvero l’abbandono precoce del percorso di istruzione senza conseguire un titolo di studio. Un fenomeno che porta con sé un forte rischio di marginalità sociale negli anni a venire. Potrebbe sembrare un paradosso, ma la scuola è praticamente il solo settore che non ha risentito dell’andamento della denatalità che ha determinato importanti cambiamenti nel mercato del lavoro sul versante dell’offerta.
Nella scuola la denatalità determina una riduzione delle platee scolastiche. Con riferimento alla sola prima classe della scuola primaria, siamo passati dai 428.055 iscritti nell’a.s. 2022/2023 ai 422.475 del 2023/2024 con una perdita in un solo anno di ben 5.580 alunni.
CALO DI ISCRITTI DAL 2018 AL 2023
Sempre in relazione ai numeri della scuola elementare, la situazione negli ultimi 5 anni, dal 2018 al 2023, registra un calo a dir poco preoccupante: nel 2018/2019 risultavano iscritti 2.498.521 alunni distribuiti in 129.354 classi; nel 2022/2023 si è registrato il seguente dato: 2.260.929 alunni e 123.755 classi, con una perdita secca di 237.592 alunni e circa 5.600 classi. Con questo trend demografico, nel 2033 l’Italia avrà un milione di studenti in meno. In particolare, considerando l’impatto sulla domanda potenziale per i servizi di istruzione e formazione, si osservano andamenti distinti per le diverse fasce d’età. La riduzione prevista nel 2041 è di appena il 5,3 per cento nella fascia tra 0 e 5 anni, sfiora il 20 per cento nelle fasce che si possono considerare generalmente corrispondenti all’istruzione elementare (6-10 anni) e universitaria (19-24 anni), e supera il 25 per cento nella fascia (11-18 anni) dell’istruzione secondaria.
Per le coorti adulte, la riduzione è minima tra i 25 e i 34 anni (228 mila persone) e si impenna tra i 45 e i 54 anni (oltre 2,9 milioni). Eppure – secondo il rapporto Ocse Education at a Glance – sono 11,44 gli alunni per docente alle primarie (media Ocse: 14,5) e 10,93 nelle secondarie (dato Ocse: 13).
STIPENDI DEGLI INSEGNANTI TROPPO BASSI IN ITALIA
È divenuto ormai un luogo comune che gli stipendi degli insegnanti siano troppo bassi, rispetto a quanto avviene in altri paesi europei. In larga misura ciò è conseguenza della politica contrattuale che caratterizza il settore. Ma le responsabilità maggiori sono dei sindacati del settore. La logica del centralismo e del ‘’todos caballeros’’ restano dominanti nel mondo sindacale della scuola: guai a meccanismi retributivi che, nel quadro di una maggiore autonomia scolastica, premiano il merito o che incentivano la produttività. La scuola è una fabbrica di precari. È sempre più difficile garantire agli scolari e agli studenti quella continuità didattica che è essenziale alla loro formazione. Il reclutamento è condizionato dalla c.d. mobilità degli insegnanti titolari di cattedra.
Quelle disponibili – per ragioni evidenti – non possono essere sempre a pochi km da casa; anzi, in prevalenza sono nelle regioni del Nord, mentre gli insegnanti che le hanno ‘’vinte’’ sono al Sud. È umanamente comprensibile che sia complicato trasferirsi; ma non si può pretendere che siano i ragazzi a farlo. Succede allora – con l’appoggio del sindacato – che si trovino tutti i pretesti per non spostarsi (un parente da assistere ex legge n. 104, la malattia, i figli minori, ecc.) fino a quando termina il periodo obbligatorio di mobilità. E si può rientrare. Così, al Nord i dirigenti scolastici devono trovare dei supplenti, per i quali, negli anni dopo, i sindacati chiedono una sanatoria per la stabilizzazione. Così gli allievi diminuiscono mentre gli insegnanti no.
Il ministro Bianchi sulla scuola pubblica
Il ministro Patrizio Bianchi commentò così la prospettiva della scuola pubblica: “Non solo non c’è intenzione di fare dei tagli ma di fronte alla riduzione prevista di bambini” che “dal 2021 al 2032 saranno 1 milione e 400mila in meno in classe, con le vecchie regole voleva dire 130mila insegnanti in meno mentre noi non interveniamo su questo. Noi fino al 2026 lasciamo totalmente inalterato il numero degli insegnanti proprio per poter ridurre la numerosità delle classi, ma dall’altra parte tutte le risorse che emergono, anche in presenza di 1,4 mln di bambini in meno rimangono nella scuola”.
IUS SCHOLAE: IL MIGLIOR PROCESSO DI INTEGRAZIONE
Quindi, diciamoci la verità: come gli immigrati stranieri consentono alle aziende di continuare a lavorare, i loro figli consentono di mantenere aperte le scuole. Certo, le classi sono multietniche ed è difficile imparare a comunicare nella stessa lingua, ma non era molto diversa la situazione descritta dal libro ‘’Cuore’’, quando la maestra con la penna rossa nel cappello doveva gestire una classe dove gli alunni parlavano solo il dialetto o più dialetti diversi.
Torniamo all’intervento di Panetta: «Misure che favoriscano un afflusso di lavoratori stranieri regolari costituiscono una risposta razionale sul piano economico». Paradossalmente, nonostante tutte le difficoltà dell’operazione, l’afflusso di un maggior numero di stranieri è una soluzione più a portata di mano del riavvio di una adeguata natalità.
Ius scholae: non solo cittadinanza, la migliore integrazione resta la scuola
Ma per rendere concreto questo processo non basta l’accoglienza, occorre passare ad un’efficace integrazione. Per quanto riguarda le seconde generazioni non esiste un’integrazione migliore della scuola; ecco perché il ius scholae è una opportunità da non trascurare. È riduttivo legarla ad una pratica strumentale finalizzata ad ottenere la cittadinanza (anche se questo obiettivo è necessario perché l’Italia sta perdendo popolazione residente nonostante il saldo migratorio attivo), ma per far crescere dei buoni cittadini.
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