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Esiste il partito dell’autonomia e quello dell’abrogazione della legge ma da entrambi gli schieramenti politici una serie di ipocrisie


C’è il partito dell’autonomia differenziata: la Lega che insegue il sogno tardo-secessionista e vuole trasformare il Nord in una macro-regione a statuto speciale. E c’è il partito che vuole abrogare la legge Calderoli perché la considera contraria al dettato costituzionale e sta raccogliendo le firme per promuovere un referendum e cancellarla. Un campo largo che si è trasformato in un movimento e può contare sul sostegno del mondo cattolico. Tra l’uno e l’altro, in questa terra di mezzo, oscillano in ordine sparso soggetti politici (Forza Italia) e sindacali (Cisl).

E’ tutto un vorrei ma non posso. Una sorta di autocensura, un pronunciamento a mezza bocca, un compromesso tra ciò che si pensa e ciò che si può dire senza mettere in difficoltà la Meloni. Che, contraria essa stessa a questa mutazione leghista della Penisola – al punto di essere stata in passato prima firmataria di una proposta di legge contro il regionalismo differenziato – mai avrebbe immaginato una sollevazione di questo genere: 500 mila firma digitali, vescovi in prima linea, banchetti fuori dalla chiese, centrosinistra che si compatta. L’autogol, l’assist dell’avversario.

Ci sono i favorevoli e i contrari, dicevamo. Posizioni nette, chiare, ben distinte. Poi ci sono le mezze misure. Chi ha votato la legge, l’ha sostenuta in commissione nei due rami del Parlamento ma poi, una volta approvata, la critica. Ne prende le distanze, fa i distinguo, rivendica le correzioni che determineranno “la riduzione del danno”. Promette, come fa il leader di Forza Italia Antonio Tajani di vigilare.

Chi si fa ricevere a Palazzo Chigi per ottenere rassicurazioni dalla Meloni (leggasi il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto) che l’autonomia tanto non si farà mai. Che senza i Lep non si farà niente, perché «tranquilli, quella legge è una pistola caricata a salve».
È ben noto come questo giornale sia stato tra i primi a prendere posizione. Erano in gioco i destini del Mezzogiorno e non solo. Diritti sociali, salute, istruzione, valori condivisibili in tutte le democrazie, l’uguaglianza innanzitutto. Non potevamo tirarci indietro.
Ma su una cosa bisogna dare ragione al Carroccio (e ci pesa dirlo): in questa battaglia, che poi è la visione che si ha del Paese, o si sta da una parte o si sta dall’altra. Tertium non datur. O si pensa che le Regioni debbano sostenersi a vicenda e interagire fra loro, che il Sistema-Italia sia un gioco di squadra. Oppure, invece, si pensa che a prevalere debba essere la competizione, l’egoismo locale, il particulare.

Fuori da questi due schemi, da questa idea di Paese, c’è solo il bla-bla-bla, il chiacchiericcio, l’opportunismo, il cerchiobottismo di chi vorrebbe restare con il piede in due staffe. Voto una legge, ma poi la contesto.
Anche perché nel frattempo, nonostante l’accerchiamento, i vari Fontana e Zaia andranno avanti per la loro strada. Il primo, presidente della Regione Lombardia, lo ha ripetuto anche ieri l’altro: trascorsi 60 giorni dall’approvazione della legge chiederà la devoluzione delle nove materie che non richiedono la definizione dei Lep.
Che cosa faranno, a quel punto, Giorgia Meloni & co.? Che altro si inventeranno per prendere tempo, per spegnere la miccia dell’ordigno a orologeria che incautamente hanno contribuito a innescare?

La politica, lo sappiamo, è l’arte del possibile. L’idea che depotenziare l’autonomia differenziata ne avrebbe ridotto i danni si è rivelata un’illusione. Il Paese si è spaccato ancora prima di sapere se si voterà per il referendum. E resterà spaccato in tutti e due i casi, sia se si voterà, sia se la Consulta respingerà la richiesta.
Ad ammetterlo è stato lo stesso ministro agli Affari regionali Roberto Calderoli, il padre dello Spacca-Italia, infuriato per questa definizione al punto da chiedere ad alcuni giornali di modificare la titolazione. Una ragione in più, per noi che l’abbiamo coniata, di continuare a definire così la sua legge.

Certe allusioni, certe frasi sussurrate a metà, lasciano intendere che i colleghi della Meloni, gli esponenti più in vista di Fratelli d’Italia, ne avrebbero fatto volentieri a meno. Tanto più che ora è entrata in campo la Conferenza episcopale italiana.
I vescovi non sisono fatti intimorire, anzi. E dio solo sa quanto può pesare, anche in futuro, il giudizio del mondo cattolico. Al cardinal Zuppi le rassicurazioni di Tajani non sono bastate. Né il tormentone su quei Lep «che tanto non verranno mai definiti e men che mai finanziati». Altro refrain ripetuto all’infinito in modo – lasciatecelo dire – ipocrita. Se la legge è sbagliata, la si cancella. Non è rendendola innocua che si rende un servizio al Paese.

Ma le ambiguità non allignano solo nel centrodestra. C’è un centrosinistra che ha riconosciuto le responsabilità che si assunse modificando nel 2001 il titolo V della Costituzione. Si è riconosciuto l’errore senza trarne le conclusioni. Senza dire che quell’articolo 116 comma 3, rimasto – non a caso – inattuato per 23 anni, andrebbe abolito o rivisto.
Ancora una volta a prevalere sono le mezze misure, i rimedi, i cerotti. Creare i presupposti per la secessione dei ricchi fu un errore. Sbagliare una volta si può. Due no.


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