X
<
>

Agostino Cordova

Share
6 minuti per la lettura

Un magistrato tenace, Agostino Cordova indagò sui rapporti tra le cosche e la massoneria deviata a lui si deve il primo maxiprocesso alla ’ndrangheta


REGGIO CALABRIA – Se ne erano dimenticati tutti, o quasi, di quel vecchio e burbero magistrato, maestro di tanti pm e ufficiali di pg morto l’altro ieri a Reggio Calabria, all’età di 88 anni. Si chiamava Agostino Cordova, già capo delle Procura di Palmi e di Napoli. Uno tra i più grandi magistrati calabresi di sempre. Un mastino dal fiuto ineguagliabile, che ha cominciato la vera controffensiva nella lotta alla ’ndrangheta calabrese. Era entrato in magistratura nel 1963, poi nel 1965 e per tre anni divenne pretore penale a Reggio Calabria. Passò nel 1970 al Tribunale, dove è stato componente il collegio per cinque anni per poi transitare all’Ufficio istruzione, dove è rimasto fino al 1980 divenendo, in qualità di giudice più anziano il coordinatore dell’ufficio fino al 1987.

Agostino Cordova e il primo maxi processo alla ’ndrangheta

In quel periodo, ha istruito importanti processi contro le cosche della ’ndrangheta tra cui quello contro il gruppo cosiddetto “dei 60” capeggiato da Paolo De Stefano, ucciso in un agguato a Reggio Calabria nell’ottobre del 1985, che vedeva alla sbarra i Piromalli ma anche i Mammoliti. Fu il primo maxiprocesso contro la ’ndrangheta dominatrice, quella che era uscita vincente dalla prima guerra di ’ndrangheta nella quale erano caduti boss importanti come don Antonio Macrì di Siderno, don Mico Tripodo e don Peppe Zappia, colui che presiedette il summit di Montalto nell’ottobre del 1969. Il processo si concluse con la condanna di buona parte degli imputati.

Quando divenne coordinatore dell’ufficio istruzione a Reggio Calabria trovò una struttura che faceva acqua da tutte le parti con interi fascicoli spariti e con migliaia di procedimenti fermi al palo. Se ne contarono ben 1.810 di fascicoli che qualche manina aveva fatto sparire, tutti per reati di ’ndrangheta. Lui rimise tutto a posto ricostruendo gli atti mancanti che delineavano la nuova ’ndrangheta, non più dedita al contrabbando o altri reati agro pastorali ma che aveva fatto il salto di qualità divenendo una “mafia imprenditrice”. Gruppi che avevano messo le mani su tutta la provincia reggina.

Agostino Cordova Procuratore a Palmi e la formazione per la lotta alla ‘ndrangheta

Il suo lavoro continuò nel distretto giudiziario di Palmi quando nel dicembre del 1987 venne nominato a capo della Procura della Repubblica di Palmi. Dove produsse il suo massimo sforzo e dove accertò come le potenti famiglie del mandamento tirrenico avevano occupato tutto quello che potevano. Schivo nei rapporti con la stampa, capace però di aperture con chi verificava fosse degno della sua amicizia e correttezza e lontano dalla politica. A lui si deve l’istruzione e la formazione della polizia giudiziaria, fase che riteneva necessaria per continuare l’azione di contrasto alle famiglie di ’ndrangheta del territorio. Aveva creato una vera e propria scuola per gli ufficiali di Pg ai quali diceva: «Se voi non siete preparati, se non indagate come si deve, trovando le prove dei reati e producendo informative dettagliate, io non posso far nulla».

Per parlare con lui occorreva fare lunghe attese nel nuovo Tribunale di Palmi, poi quando ti dava udienza poche parole annegate in nuvole di fumo emanate dal suo immancabile sigaro toscano. Dava a tutti del “voi” ma non per pretendeva le distanze per il suo ruolo, ma “per una questione di rispetto”, come mi ha detto pochi anni fa quando lo incontrai per l’ultima volta. Ogni tanto ma solo dopo il suo pensionamento, era consuetudine andare a mangiare lo stocco dal “professore” a Mammola e quei momenti conviviali erano per un cronista veri propri master di criminologia e soprattutto una vera narrazione e ricostruzione di come la criminalità calabrese fosse arrivata al vertice mondiale del crimine. Concetti che spiegava con poche parole tra un boccone ed un altro e poi tra un tiro di sigaro e un sorso dell’immancabile limoncello.

La centrale a carbone e le inchieste sulla sanità

A Palmi fece la storia cominciando ad indagare sull’intreccio tra mafia e politica, sull’accaparramento della sanità pubblica. Mitica una sua battuta quando scoprì che un presidente di una vecchia Usl della Piana andava a giocare al casinò utilizzando la carta di credito dell’azienda pubblica: “Questi – disse – si stanno mangiando anche le federe dei cuscini degli ospedali”.
Fu lui, a bloccare lo strapotere di Francesco Macrì, detto “Ciccio Mazzetta” che era a capo della Usl di Taurianova, dove le assunzioni fioccavano indipendentemente dai meriti o dalla professionalità. Fu lui a scoprire come le famiglie della ’ndrangheta locale avevano messo mani e piedi nei pre-cantieri della costruenda Centrale a Carbone di Gioia Tauro, sequestrando i cantieri e mettendo fine di fatto, allo scempio ambientale che si voleva realizzare nella Piana. Ma la sua inchiesta che fece tremare l’Italia intera fu quella sugli intrecci tra la massoneria regolare e quella deviata.

Agostino Cordova fu il primo a capire lo strano intreccio tra ’ndrangheta e massoneria

Un mastino, dicevamo, dal fiuto infallibile. Come quando intuì che dietro le più grandi famiglie della ’ndrangheta della Piana ci fossero menti sofisticate, e tanti di questi erano iscritti a logge massoniche, deviate. Sapeva che erano in tanti “gli uomini di pansa” che detenevano nelle loro case simboli massonici. Ordinò il sequestro di tutti gli elenchi dei massoni del Goi. Convinse il Gran Maestro del Goi Giuliano De Bernardo, che poi si dimise dalla carica, a collaborare con le indagini, dimostrandogli come, tra i massoni ufficiali vi fosse gente legata alle mafie e al malaffare.

Un giorno quando mandò i Carabinieri della Sezione di pg della Procura di Palmi a Palazzo Giustiniani a prelevare gli elenchi dei massoni, davanti ai militari dell’Arma si presentarono almeno una decina di Gran Maestri, tutti adornati di collane e grembiulini che si misero in fila, antecedendo davanti al loro nome il titolo di Gran Maestro. Dopo due o tre presentazioni il maresciallo dei Carabinieri, stanco dei titoli delle persone in fila rispondeva anch’egli con titolo non di Gran Maestro ma di “Gran Maresciallo dei Carabinieri” quasi per affermare che lui, maresciallo, non era secondo a nessun Gran Maestro.
Si raccontava anche che quando arrivarono gli elenchi in Procura furono collocati sul tavolo della sua scrivania davanti ad un manipolo di sostituti procuratori e qualcuno di essi scrutando i nomi fratelli calabresi affermò con sorpresa: “guarda c’è anche zio Adolfo” e giù risate a crepapelle, sotto lo sguardo severo del Procuratore Cordova.

La Dna e la Procura di Napoli

Alla fine, l’inchiesta portò alla compilazione di centinaia di faldoni di carte e di documenti probatori, che venne sottratta a Cordova trasferita a Roma dove venne definitivamente archiviata. Uno dei tanti misteri d’Italia.
Nel 1992 nasce la Direzione nazionale antimafia e Agostino Cordova vi concorre. Insieme a Giovanni Falcone ha il curriculum più completo, ma il ministro dell’epoca, nonostante le indicazioni del Csm, sceglie Bruno Siclari, anch’egli calabrese. Poi nel luglio del 1993, viene nominato procuratore capo a Napoli e quasi subito si scontra con un nutrito gruppo di quasi sessanta pm di quella Procura.
Non guarda in faccia nessuno Agostino Cordova ed indaga anche Antonio Bassolino. Il clima diventa sempre più rovente tanto che la moglie dichiarò a Giorgio Bocca che «La vera “camorra” forse sono i colleghi di mio marito, sono i giudici che si fingevano suoi amici quando lui passava in Procura. Lui lavorava senza guardare che cosa poteva essere utile a questo o a quello». E per poterlo allontanare da Napoli, la politica stabilì che le aggregazioni alle Dda in funzione direttiva dovevano durare non più di otto anni. Un pezzo di storia nella lotta alle mafie la vita di Cordova, per tutti “il Procuratore” per antonomasia.

Share

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE