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Verona vista dall'alto

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L’audizione del procuratore di Venezia in Commissione antimafia sulla penetrazione della ‘ndrangheta in Veneto. Rare le costituzioni di parte civile

Il radicamento della ‘ndrangheta nel Veneto, e in particolare nel Veronese, è ormai alla terza generazione. Parola di Bruno Cherchi, il capo della Dda di Venezia, la cui audizione in Commissione parlamentare antimafia è ora fruibile in forma integrale. Cherchi ha spiegato come ciò sia stato possibile, innanzitutto, a causa di una disattenzione iniziale da parte di magistrati e forze dell’ordine ma anche da parte delle comunità. Una disattenzione, quella della società civile, che, ad avviso del magistrato, «ancora permane».

«L’attività di contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso in Veneto è iniziata abbastanza di recente, a mio avviso per una assenza di attenzione per molto tempo su questo fenomeno verificatosi in territorio veneto, e forse in tutto il nord est – spiega il magistrato – Disattenzione sia da parte della Direzione distrettuale antimafia e quindi della Procura di Venezia sia anche da parte delle forze di polizia. Distrazione che è stata ulteriormente aggravata da una scarsa attenzione nei confronti del fenomeno da parte del mondo economico, del mondo culturale, del mondo dei cittadini».

UNA SOLA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE

La dimostrazione, secondo Cherchi, sta in primis nelle pochissime costituzioni di parte civile nei processi di ‘ndrangheta celebrati negli ultimi sette anni. Nel processo Isola Scaligera, quello che ha accertato l’esistenza di un “locale” di ‘ndrangheta a Verona, «abbiamo avuto un solo imprenditore che si è costituito parte civile».

Cherchi fa riferimento espressamente alla famiglia Giardino di Isola Capo Rizzuto, articolazione al Nord delle cosche Arena e Nicoscia. Il procuratore, che in più passaggi evidenzia che è la ‘ndrangheta la più influente tra le mafie presenti in Veneto, illustra la penetrazione dei clan nelle attività produttive. «L’attività primaria è quella del riciclaggio. Abbiamo emergenze, consolidate da pronunce giurisdizionali, di denaro che dalla Calabria passa al Veneto e viene “ripulito” in attività imprenditoriali di vario tipo. Essenzialmente all’inizio si trattava soprattutto di un’attività di costruzione di abitazioni e di negozi per poi passare ad altre attività imprenditoriali che vanno dagli appalti pubblici, ad esempio delle Ferrovie dello Stato, all’inserimento in attività finanziarie in senso proprio e in campo turistico. Queste sono soprattutto le attività della ‘ndrangheta, che non tralascia lo spaccio di stupefacenti ma che, per quello che ci risulta, è un’attività recessiva».

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POCHI MAGISTRATI IN VENETO MA LA ‘NDRANGHETA NON ASPETTA

Uno degli aspetti toccati dal procuratore di Venezia è quello della carenza di organico di magistrati (in pianta sarebbero 22 i sostituti della Dda ma nei periodi più felici se ne sono visti 16), e soprattutto delle competenze e del necessario coordinamento tra Procure. «È necessario avere dei magistrati che abbiano una conoscenza del fenomeno».

Spazio anche alle infiltrazioni negli enti locali. Cherchi ha ricordato l’inchiesta su Eraclea, dove il sindaco era stato sottoposto a misura cautelare ma il ministero dell’Interno, contrariamente a quelle che erano le valutazioni del prefetto, ha ritenuto di non sciogliere il Comune. In quel caso, però, i tentacoli erano dei casalesi. Pur senza menzionare il processo Isola Scaligera, il procuratore fa riferimento a funzionari che «avevano avuto rapporti con la ‘ndrangheta».

C’è anche il fenomeno delle fatturazioni per operazioni inesistenti, “specialità” della cosca Grande Aracri di Cutro presente anche in Veneto, «un’attività che non ha creato problemi di ordine pubblico – osserva il magistrato – È stata poco vista e poco sentita anche dalla popolazione. Non c’è stata una reazione come invece accade quasi quotidianamente in Veneto per il piccolo spaccio dove, siccome le persone si vedono, si sentono e danno fastidio, la gente reagisce».

NESSUNA INDICAZIONE DALLA SOCIETÀ CIVILE

Cherchi cita la maxi inchiesta Aemilia, sfociata nel più grosso processo contro la ‘ndrangheta al Nord, che aveva al centro proprio la filiale emiliana della cosca di Cutro, e fa riferimento ai «rapporti tra l’Emilia-Romagna e Verona». Ma dalla società civile, nonostante una serie di incontri con tutte le organizzazioni sindacali e degli imprenditori, «non è mai arrivata nessuna indicazione».

Cherchi prova a spiegare perché. «Non vorrei parlare di omertà, ma è proprio la tipologia dell’ambiente. Come è noto il nord-est è foriero di grandi capacità imprenditoriali, si tratta di imprese in cui si lavora molto. Per motivi proprio di conoscenza non immediatamente si pensa ci possa essere un’infiltrazione. Probabilmente c’è proprio anche un dato culturale, cioè in Veneto l’idea che ci fosse una bruttura in un mondo di imprese funzionanti e di qualità di vita molto elevata, probabilmente non era molto sentita. Aggiungo, in riferimento in particolare a Eraclea ma per certi versi anche al Veronese, che l’interesse complessivo è di non far sapere che ci siano attività criminali in zone turistiche di rilievo internazionale».

LA PENETRAZIONE DELLA NDRANGHETA NELL’ECONOMIA DEL VENETO

A ciò si aggiunga che, fin dall’origine del loro insediamento, le organizzazioni di tipo ‘ndranghetistico, in Veneto, «non hanno mai creato, se non in maniera sporadica e senza grosso rilievo, pericolo per le persone». Un’attività che

Tutto inizia con «incarichi di basso profilo, soprattutto incarichi di controllo dei magazzini, di controllo dei luoghi dove si svolgeva l’attività produttiva» a «soggetti anche di basso spessore criminale». Gente che però, pur lavorando e venendo normalmente pagata, ha creato «una rete utile quando c’è stata l’attività di riciclaggio e quella successiva penetrazione più concreta nelle attività produttive».

non si è manifestata con aggressioni, con fenomeni di usura, con possesso di armi o con attività che in qualche maniera portassero all’attenzione la loro esistenza». In Veneto l’attività della criminalità organizzata si è soprattutto concretizzata, fin dall’inizio, «mediante l’inserimento nelle attività produttive e di riciclaggio e l’acquisizione di aziende in difficoltà».

Tutto inizia con «incarichi di basso profilo, soprattutto incarichi di controllo dei magazzini, di controllo dei luoghi dove si svolgeva l’attività produttiva» a «soggetti anche di basso spessore criminale». Gente che però, pur lavorando e venendo normalmente pagata, ha creato «una rete utile quando c’è stata l’attività di riciclaggio e quella successiva penetrazione più concreta nelle attività produttive».

SISTEMA NDRANGHETA IN VENETO OLEATO DA 30 o 40 ANNI

Le inchieste hanno quindi fatto luce «su un sistema oleato e piuttosto risalente nel tempo perché abbiamo una presenza della ‘ndrangheta nel Veneto, soprattutto nella zona del Veronese e del Padovano, che risale a circa 30-40 anni fa – rileva Cherchi –  siamo già quantomeno alla seconda generazione e in certi casi alla terza di soggetti ormai stanziali, ma che non hanno mai interrotto i rapporti con i luoghi di provenienza. Su questo non c’è stata attenzione neppure da parte della comunità, cosa che per la verità – è la conclusione del magistrato – a mio avviso permane». Forse anche perché a pezzi di società civile del profondo Nord i soldi sporchi delle mafie non fanno schifo.

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