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Dopo il secondo turno di legislative la Francia si è svegliata più italiana, o meglio più “italianizzata”: Il sistema della Quinta repubblica, dominato dalla centralità del “monarca repubblicano”, è entrato dunque in una nuova quanto incerta fase di parlamentarizzazione?


Con una battuta si potrebbe affermare che la Francia si è svegliata, dopo il secondo turno delle legislative, un po’ più “italianizzata”. Il voto legislativo in sessantasei anni di Quinta Repubblica ha solitamente avuto due funzioni fondamentali: confermare il primato presidenziale o mettere in discussione tale primato, facendo così in quest’ultimo caso pendere la bilancia nella direzione di un Primo ministro appartenente ad una maggioranza opposta o comunque concorrente rispetto a quella del presidente. Dopo questo secondo turno legislativo un po’ folle dell’estate 2024, il risultato è un’Assemblea nazionale divisa in tre blocchi (più un quarto molto più esiguo) con la prospettiva di dover creare una maggioranza, anche relativa, nelle settimane successive al voto. Il sistema della Quinta repubblica, dominato dalla centralità del “monarca repubblicano”, è entrato dunque in una nuova quanto incerta fase di parlamentarizzazione?

Tra le molte e per certi versi contraddittorie indicazioni provenienti dal doppio voto delle legislative vi è senza dubbio il protagonismo che nelle prossime settimane avranno le dinamiche parlamentari. E questo essenzialmente perché nessuna delle forze politiche, né coalizione di forze politiche, si avvicina ad una maggioranza anche solo relativa. In più occorre ricordare che siamo di fronte ad una nuova Assemblea nazionale fortemente legittimata da una partecipazione elettorale importante, vicina ai venti punti percentuali in più rispetto alle legislative meno partecipate della storia della Francia repubblicana, quelle del 2017 e del 2022.

Dice dunque una parte di verità il social-riformista Glucksmann quando afferma che il potere sta passando dall’Eliseo a Palais Bourbon. Insisterei però sul fatto che si tratti di “una parte di verità” e non si debba esagerare troppo sulla parlamentarizzazione del sistema. Solo il presidente, infatti, è dotato di una legittimazione diretta su scala nazionale (gli eletti hanno un forte radicamento che è però territoriale, legato alla propria circoscrizione. Inoltre, le istituzioni della V Repubblica mantengono un primato presidenziale.
È il Presidente che presiede il Consiglio dei ministri, l’ordine del giorno dei lavori parlamentari è deciso dal governo, l’articolo 49.3 resta un meccanismo di razionalizzazione potente del parlamentarismo (voto senza dibattito di un provvedimento al quale ci si può opporre solo con mozione di censura a maggioranza assoluta, con assenti che contano come voto per la maggioranza) e comunque un governo anche minoritario può nascere senza obbligo di voto di fiducia, a patto che non giunga appunto una mozione di censura. Solo per fare un esempio di scuola oggi le “estreme”, se volessero coalizzarsi in negativo per opporsi ad una sorta di governo di “grande coalizione” alla francese, potrebbero contare su circa 220, al massimo 230 deputati, ben lontani dai 289 voti necessari.

E’ dunque opportuno registrare questo potenziale scivolamento verso la centralità parlamentare, ma senza eccedere. Lo stesso occorre fare nel momento in cui si va ad individuare il Nouveau Front Populaire come vero vincitore di queste legislative. Da un lato è indubbio che la coalizione composta da France Insoumise, socialisti, ecologisti e comunisti costituisce con i suoi 182 eletti il fronte maggioritario all’Assemblea nazionale. D’altra parte, come appena ricordato, si tratta di una coalizione, anche piuttosto composita, che quasi sicuramente andrà a costituire gruppi parlamentari differenti ma che soprattutto su molti dossier ha posizioni anche diametralmente opposte (politica estera, dimensione europea e politica economica su tutte).
Ma anche ammesso che, come annunciato, il NFP marci compatto e arrivi a proporre un Primo ministro al Presidente, stiamo parlando di una maggioranza relativa pari a meno di un terzo dei seggi parlamentari, con nessuna possibilità anche soltanto numerica di sopravvivenza. Dunque, vincitori sì, ma appunto con qualche “ma”.

Vincitori incerti, sconfitti chiari? La sfumatura anche da questo punto di vista è d’obbligo. Il quadro politico-istituzionale francese a partire dalla campagna presidenziale del 2017 è dominato dall’effetto destrutturante della coppia Macron-Marine (Le Pen). I due outsider rispetto a quelli che furono gli assi portanti del sistema politico quintorepubblicano hanno eroso dall’interno il sistema e si potrebbe affermare che in questo inizio d’estate sia giunta una sorta di nemesi: il sistema da loro “tarlato”, ha finito per collassare. Sul fronte Macron, e in relazione all’azzardo dello scioglimento, si può parlare di sconfitta se si ferma l’attenzione sulla sua promessa la sera del 9 giugno (“cercare una chiarificazione politica”) e se si osservano i numeri dei deputati dell’oramai ex maggioranza presidenziale.

Il quadro non è per nulla più chiaro e la perdita netta di deputati ammonta attorno alle 80 unità. La chimerica cifra di 250 come maggioranza relativa macroniana, oggi fatica ad arrivare a 170 eletti. La “scommessa” dello scioglimento aveva però anche un altro obiettivo: mettere il Paese e l’elettorato nella condizione di confermare o smentire il successo del RN alle elezioni europee. Un RN che, in assenza di scioglimento, avrebbe certamente rivendicato la guida del Paese in quanto partito di maggioranza, posto di fronte al voto legislativo è uscito clamorosamente ridimensionato.

Dunque, RN sconfitto? Solito gioco di chiari e scuri. La tendenza tra il 2017 e oggi è quella di una crescita impressionante in termini di voti raccolti al primo turno (più che triplicati e questo significa anche molti finanziamenti pubblici) e anche di eletti in parlamento (la sequenza dice 8 nel 2017, 89 nel 2022 e 125 nel 2024, ai quali aggiungere i 17 eletti come RN-Lr). Allo stesso modo, il bicchiere è mezzo vuoto e sono emerse almeno tre delle strutturali carenze del RN: la leadership di un Le Pen (quando finirà, il RN, di essere un’impresa famigliare?); l’incapacità o meglio l’impossibilità di coalizzarsi (l’arrivo dei transfughi dai LR non è stato in ultima analisi così determinante); l’assenza di una tradizione di cultura di governo.

Se una parte consistente di elettorato considera il RN un partito potenzialmente di governo, il secondo turno delle elezioni legislative ha certificato che questa porzione non è maggioritaria nel Paese e non esiste alcun veicolo di “acculturazione politica” possibile, così come ad esempio è accaduto nel contesto italiano per gli eredi del MSI, passati attraverso il lavoro svolto da personalità quali Gianfranco Fini e Giuseppe Tatarella, veicolato ulteriormente dal berlusconismo e fatto proprio non a caso da Giorgia Meloni.

Proprio questo riferimento al nostro presidente del Consiglio non può che condurre ad una riflessione su una doppia dimensione italiana ed europea del voto francese e della futura evoluzione politico-istituzionale nel contesto dei cugini d’oltralpe. Ad investire un certo capitale politico su una possibile maggioranza assoluta o almeno relativa del RN era stato il leader leghista Matteo Salvini. Dopo il successo di Bardella alle europee, portare il giovane presidente del RN al palazzo Matignon avrebbe fornito a tutto il progetto in atto all’interno della galassia nazional-populista europea, oramai a guida Orban, uno slancio ulteriore.
La battuta d’arresto è stata significativa e a pagarla di più è chi come Salvini si era esposto per il suo alleato in Europa. Per il Presidente del Consiglio italiano il bicchiere può essere in realtà mezzo pieno. Sia perché l’alleato-nemico interno ne esce di nuovo azzoppato, sia perché Fdi e la premier possono rivendicare una loro unicità a livello continentale, cioè aver portato la destra alla guida di uno dei Paesi fondatori dell’Ue e averlo fatto alla guida di una coalizione in grado di unire tutto l’arco delle destre e del centro conservatore.

Per semplificare è lei l’unico underdog ad essere entrato nella cabina di regia di uno dei tre principali Paesi dell’Unione. Ma a proposito di Ue, si avvicina la data chiave della prima plenaria del Parlamento europeo, che dovrebbe “incoronare” il 18 luglio von der Leyen per altri cinque anni di presidenza della Commissione. E in quella occasione Meloni dovrà fare una scelta. La battuta d’arresto della marcia trionfale di Marine Le Pen potrebbe averla allontanata dalle “sirene” della destra nazional-populista europea, per avvicinarla in prospettiva al popolarismo europeo, anche perché l’alternativa è “tirare a campare” con i polacchi del Pis dentro al contenitore in declino di ECR.

Ma per un’ironia del calendario politico francese lo stesso 18 luglio segna un primo decisivo appuntamento anche per la nuova Assemblea nazionale: inizieranno infatti le votazioni per eleggere il presidente del nuovo parlamento. Per le prime due votazioni è necessaria la maggioranza assoluta, dalla terza si passa alla maggioranza relativa.
Il nome del nuovo presidente, ma soprattutto la composizione della maggioranza che lo eleggerà, potranno fornire interessanti indicazioni sul nuovo governo transalpino. Parigi-Strasburgo-Roma sono molto più vicine di quello che possono sembrare.


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