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I giovani, dopo la formazione universitaria, cercano occupazioni fuori regione o all’estero; serve una politica dei redditi per il Sud


Una politica dei redditi. Serve all’Italia e serve al Mezzogiorno, dal momento che, come emerge dai numeri e dalle storie che pubblichiamo negli approfondimenti di questa settimana, sono sempre più numerosi i giovani che, terminata la formazione universitaria di primo e secondo livello, guardano con crescente interesse al mercato occupazionale extraregionale e/o estero.
A parità di formazione e tipologia di lavoro, infatti, quella che salta immediatamente agli occhi è la differenza retributiva peggiore nel nostro Paese (quasi ultimo in Europa) rispetto agli altri Paesi Ue e non. Una differenza che nel Sud d’Italia si aggiunge alla mancanza stessa di opportunità di lavoro, oltre che ad uno svantaggio di genere a carico delle donne ancora molto marcato.

IL RAPPORTO SVIMEZ

I numeri di Svimez parlano chiaro ormai da tempo e solo alla fine dello scorso anno mettevano in evidenza come tra le questioni più urgenti per il nostro Paese ci fossero proprio salari, lavoro povero ed emigrazioni giovanili. E, a proposito del Mezzogiorno, pur essendo cresciuta dalla seconda metà del 2021 l’occupazione più stabile, la vulnerabilità nel mercato del lavoro resta su livelli definiti “patologici”.

Riguardo l’ambito formativo e occupazionale del Nord e Sud d’Italia, vanno fatte anche altre due considerazioni. La prima: se per il Nord – sempre alla luce dei dati statistici universitari e lavorativi – si può parlare di “mobilità”, quindi di uno spostamento bidirezionale sia in entrata che in uscita di studenti e forza lavoro qualificata (con un ritorno anche dall’estero nelle proprie regioni di origine), per il Sud persiste la “migrazione”, un’uscita cioè di cervelli e manodopera spesso definitiva, che va a depauperare ulteriormente territori storicamente provati da povertà educativa, materiale e reddituale.

Una divaricazione che l’autonomia differenziata non farà altro che aggravare alla luce di stipendi migliori che il settentrione potrà permettersi sempre di più, assicurandosi – in un circolo virtuoso ma separato dal resto del Paese – capitale umano di eccellenza. La seconda considerazione riguarda la formazione iniziale delle regioni del Nord e del Sud. Al Sud, dati alla mano, il livello formativo è oggettivamente più basso, con una responsabilità dello Stato centrale (ove fosse davvero centrale) del tutto evidente.

La possibilità, solo per fare un esempio, di svolgere la specializzazione medica in ambiti sanitari e strutture ospedaliere adeguate è determinante nell’immediato come nel lungo periodo, rispetto al rapporto tra diritto allo studio e diritto alla salute del territorio di riferimento.

LA FOTOGRAFIA DELL’ANVUR

La fotografia dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, accanto ai dati di Almalaurea sul rapporto tra laureati e livello reddituale generale (entrambe ampiamente esaminate in queste pagine), è a questo proposito un interessante primo piano sulla formazione medica, che se pone l’Italia al di sopra di Spagna, Francia, Regno Unito e Germania per numero di laureati in Medicina ogni 100 mila abitanti, rileva la fragilità di un sistema sanitario insufficiente, con una carenza allarmante di infermieri e che sempre più medici scelgono di lasciare a vantaggio di altri Paesi con migliori retribuzioni. La differenza negativa tra la spesa statale per la formazione e la successiva perdita di occupati di qualità a vantaggio dell’estero è evidente.
Ad oggi, lo stesso Pnrr – così come concepito, insistendo su territori diseguali, più reattivo agli investimenti il Nord e molto meno il Sud – e l’autonomia differenziata rischiano non solo di non attenuare, ma di peggiorare la sperequazione cronica di partenza tra regioni.
Tra le principali contromisure ci sarebbe una spesa pro capite uguale per tutto il Paese, il contrario di quello che l’Italia continua a fare.


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