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L’irriducibile incertezza del motore America ma i segnali positivi del sistema finisco con il prevalere su tutti gli altri


La domenica scorsa abbiamo parlato dell’economia americana e delle incertezze che sottendono quella che molti chiamano una robusta tenuta dell’attività. Ci sono delle spine in quella rosa? La messe dei dati a disposizione degli analisti è davvero copiosa. Forse nessun altro Paese al mondo ha un sistema statistico così robusto come quello americano, e le rilevazioni degli enti pubblici sono distribuite – a differenza di quel che avviene in Europa – su più agenzie. In Italia c’è l’Istat e basta.

In America – parliamo delle statistiche sull’economia reale – c’è, stranamente, la Banca centrale (la Fed) per l’indice della produzione industriale, il ‘Bureau of Labor Statistics’ per prezzi, salari, occupazione, produttività…, e il Census Bureau per ordini, vendite al dettaglio, costruzioni, scorte, commercio estero… Infine, il ‘Bureau of Economic Analysis’ (che dipende dal ‘Department of Commerce’ – e in inglese la parola ‘Commerce’ suona molto più solenne del nostro umile ‘commercio’) tira le fila di tutti i numeri e sforna i conti nazionali: conti che, per dettaglio e lunghezza delle serie temporali non hanno eguali al mondo. E non dimentichiamo che, oltre alle statistiche pubbliche, c’è una pletora di fornitori privati che sfornano dati, a volte alternativi e a volte complementari, rispetto a quelli ufficiali.

Si dovrebbe concludere che, con tale ricchezza di segnali, dovrebbe essere relativamente facile tastare il polso dell’economia americana e stabilire con accuratezza diagnosi, prognosi e terapie. Ma così non è. Ricordo che nel primo dopoguerra – ero un ragazzino – un medico mi disse qualcosa che mi impressionò parecchio: noi medici, disse, sappiamo solo un 10% di come funziona il corpo umano. Spero che, a distanza di settant’anni, quella percentuale sia aumentata, ma certamente siamo ancora lontani dal 100%. Del pari, siamo lontani da un altro 100%: come funziona, cioè, il gran corpaccio dell’economia – americana e non.

Questa incertezza – che John Maynard Keynes qualificava di ‘irriducibile’ – è stata ingrandita ed esaltata da questi anomali ultimi anni. La pandemia ha cambiato modi di produrre e modi di consumare – vedi, per esempio, il lavoro da casa – , ha scardinato la logistica, accorciato le catene di offerta, rimpiazzato molti aspetti della globalizzazione (‘near-shoring’: delocalizzazioni verso Paesi meno lontani; e ‘friend-shoring’: delocalizzazioni verso Paesi non ostili) e, infine, ha cambiato molti tratti di quella psicologia dell’operatore economico (‘spiriti animali’, li chiamava Keynes) da cui dipende la voglia di spendere e di investire. Fra gli operatori economici ci sono, ovviamente, sia quelli privati che quelli pubblici.

Questi ultimi si sono (giustamente) avventurati in imponenti sostegni all’economia, con massicce spese pubbliche, elargizioni, sussidi come se piovesse, tagli di imposte, enormi deficit di bilancio, debiti pubblici alle stelle…; mentre i primi hanno ricevuto detti sussidi e dette elargizioni, senza poter spendere (date le chiusure) e hanno quindi messo molto fieno in cascina: un tesoretto che ora stanno spendendo, rafforzando la ripresa. Dopo il ‘cigno nero’ del Covid, non ha aiutato il fatto che siano venute fuori altre disgrazie, come la guerra in Ucraina prima e quella in Medio Oriente poi.

Sempre in tema di economia americana, domenica scorsa abbiamo menzionato la ‘Sahm Rule’ (se la media mobile di tre termini del dato mensile sul tasso di disoccupazione aumenta di più di mezzo punto sul periodo precedente, il cattivo tempo – la recessione – incombe). Ed esibimmo un grafico che mostrava come i recenti andamenti andavano verso il punto che avrebbe fatto scattare la cattiva notizia.

Un’altra settimana di dati ha portato a cambiare i battiti nel polso della congiuntura? Gli indici PMI (che raccolgono i giudizi di una figura-chiave dell’impresa, i direttori agli acquisti) si sono rivelati fra gli indicatori più tempestivi e affidabili degli andamenti a breve termine dell’economia (e, in Europa, sono uno dei pochi indici ‘privati’, che non provengono, cioè, dai vari ‘Istat’ nazionali). Come si vede dal grafico (che collassa i PMI per l’industria manifatturiera e per i servizi privati in un unico indice composito), questo si mantiene, per gli Usa, sopra quella ‘linea 50’ che discrimina fra espansione (sopra 50) e recessione (sotto 50); mentre, per l’Eurozona, l’indicatore va salendo rapidamente verso quota 50.

Il secondo grafico guarda a tre importanti variabili per l’economia Usa. Nell’armamentario delle statistiche hanno un posto privilegiato gli indicatori ‘avanzati’: cioè, quei dati – di solito ottenuti mettendo assieme un certo numero di variabili che, sulla base dell’esperienza passata, hanno rivelato capacità di anticipare gli andamenti futuri – che ambiscono presagire il cammino dell’economia. Il primo è calcolato da un organismo internazionale, l’Ocse; il secondo da un ente privato, il Conference Board. I due andamenti si divaricano, il primo conforta il progresso dell’economia, il secondo suggerisce lo sconforto della recessione. Fortunatamente, il terzo indicatore, disponibile fino al corrente mese – la fiducia dei consumatori – mostra che questi sono ottimisti, probabilmente perché vedono la disinflazione in corso. Insomma, anche se ci sono indicazioni contrastanti, le buone notizie sopravanzano le cattive…


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