Un cantiere dell'alta velocità
6 minuti per la letturaNel DEF il governo indichi le linee guida di un Piano per il riassetto funzionale dell’Italia e avvii il processo di sua costruzione; uno strumento programmatico di medio lungo periodo
L’unione Europea sta per varare, mancano solo i voti finali del Consiglio e del Parlamento, il regolamento che ridefinisce le reti transeuropee di trasporto alle date 2030, 2040, 2050. Un atto giuridicamente vincolante per tutti gli Stati Membri che questa volta va ben al di là della individuazione di archi e nodi delle diverse reti di trasporto, se non altro perché redatto in coerenza con le politiche europee di “transizione ambientale e digitale” e della “transizione geografica” (maggior attenzione all’Europa Orientale fino alla Moldavia e all’Ucraina e, ancor prima, a tutti gli stati dei Balcani Occidentali) imposta dall’invasione russa dell’Ucraina.
Un atto di pianificazione costruito con cura in quasi quattro anni di lavoro, combinando “verità” e “democrazia”: una bozza redatta dalla Commissione Europea sulla base di suggerimenti dal basso raccolti in tutta Europa, resa coerente in sede tecnica e passata al vaglio di tutti gli interessi settoriali coinvolti e di quelli di tutti gli Stati Membri, e infine approvata sia dal Consiglio Europeo, sia dal Parlamento dell’Unione. Un provvedimento che per la sua solidità sia tecnica sia politica è destinato a durare: non verrà infatti sottoposto a revisione che fra dieci anni.
Una cornice europea solida nella quale – ci si immagina a Bruxelles – inserire il mosaico delle pianificazioni nazionali. È per questo che l’articolo 58 del predetto regolamento prevede che gli Stati Membri trasmettano i loro “piani” pertinenti per ottenerne un parere di coerenza con le priorità stabilite dal regolamento europeo nel suo complesso, ma anche dai “piani di lavoro” dei Corridoi Europei e dagli eventuali “atti esecutivi” che la Commissione Europea si riserva di adottare per far rispettare gli obiettivi temporali di realizzazione delle sezioni transfrontaliere, ma non solo, delle reti modali. Per capirci, il “piano” italiano dovrebbe far sapere a Bruxelles, ad esempio, come intenda intervenire su cinque dei nove corridoi prioritari.
Il corridoio Scandinavo-Mediterraneo, che ci interessa dal Brennero, alla Sicilia e nel quale va inquadrato anche il tema del Ponte di Messina, struttura di continuità territoriale capace di aprire reciprocamente, integrandoli, i mercati della Sicilia e del Mezzogiorno continentale.
Il corridoio Mar del Nord-Reno-Mar Mediterraneo, che ci interessa da Genova al confine svizzero, nel quale si gioca la concorrenza per l’accessibilità ai mercati della “vecchia <Europa” con il ramo da Marsiglia a Calais nell’Europa del dopo Brexit. Il corridoio Mar Baltico-Mar Adriatico che dovrebbe aiutare nell’arduo compito di sostenere la competitività della portualità adriatica da Bari a Trieste con quella baltica nella alimentazione dei mercati centro-est europei. E soprattutto il corridoio Mediterraneo, che attraversa tutta la pianura padana fino, ad est, al confine sloveno, e quello Balcani occidentali-Mar Mediterraneo orientale che, novità poco sottolineata finora, parte dalla Puglia: è sulla capacità di eliminare il “collo di bottiglia” ferroviario al confine italo-sloveno e di rendere efficace l’inclusione di Bari nel corridoio che interesserà tutti i Balcani e la Grecia che si giocherà la presenza italiana sui mercati della nuova “nuova Europa” destinata ad estendersi fino a comprendere l’Ucraina.
Ma non basta il “piano” italiano dovrebbe anche dire come l’Italia intenda contribuire alla lotta ai cambiamenti climatici provvedendo, nel campo del trasporto, allo spostamento modale da strada (e cielo) a ferrovia e dall’auto al trasporto collettivo in almeno 49 città italiane già individuate. Ma, qui casca l’asino. Con quale “piano” l’Italia si presenterà a Bruxelles per il coordinamento efficiente con la pianificazione europea? Né nei cassetti istituzionali del Governo, e tanto meno del Parlamento, vi è nulla di meditato e consolidato.
Anzi. Dopo l’occasione mancata del PNRR, che di piano ha solo il nome e che oggi si dibatte in un malinconico “gioco delle tre carte” (Giorgio Santilli, Gran casinò di governo, Il Foglio, 14 marzo 2024) per salvare qualcuna delle opere del Piano Complementare che “osava” guardare oltre il 2026, ci ha pensato il masochistico articolo 39 dell’ultimo Codice dei contratti ad istituzionalizzare la “non-pianificazione” lasciando al Governo ogni decisione sulla identificazione, opera per opera, oggi oppure domani, delle infrastrutture di interesse nazionale.
L’unica risposta oggi possibile è l’ennesimo “arbitrio del principe”: un documento redatto dal governo in carica destinato, come è successo a tutti i “non piani” negli ultimi 20 anni, ad essere sconfessato da un governo successivo. Destino segnato, ineliminabile anche in presenza di un governo che duri l’intera legislatura, perché le infrastrutture di trasporto hanno gestazioni lunghe e l’Europa ci chiede di sapere cosa vogliamo a orizzonte 2030, 2040 e 2050. Una inevitabile conferma della instabilità decisionale italiana. A ben vedere una situazione che fa a pugni con la ricerca di stabilità decisionale cercata con il premierato governativo. La vicenda infrastrutturale ci dice che, ancor prima che nella forma di governo, la stabilità decisionale di medio-lungo periodo va ricercata su definizioni programmatiche, quanto più possibile condivise, raggiunte in Parlamento dopo un iter di redazione capace di raccogliere sia la legittimazione tecnica sia quella democratica.
Naturalmente questo non riguarda solo le infrastrutture di trasporto, ma, dopo quelle di messa in sicurezza dei territori, dai rischi idrogeologico, sismico e vulcanico, anche quelle energetiche, idriche, di telecomunicazione, e quelle scolastiche e sanitarie, e altro ancora. E il tutto per coinvolgere in un vero processo di sviluppo giovani, donne e Mezzogiorno. È per questo che il governo farebbe bene ad accogliere la proposta reiterata sulle colonne di questo giornale da Ercole Incalza (Governo alleghi al DEF uno strumento programmatico di medio-lungo periodo, 15 marzo 2024) di por mano a un “piano strategico per il riassetto funzionale del Paese” (nel quale ovviamente un piano generale dei trasporti e della logistica sarebbe solo una parte).
Con una correzione che mi permetto di fare. Lo “strumento programmatico di medio-lungo periodo” non può essere allegato al prossimo Documento di Economia e Finanza perché anch’esso non potrebbe risultare altro che un “capriccio del principe”; generoso, ma sempre esposto ad instabilità per la inevitabile mancanza di legittimazione tecnica e democratica.
Nel DEF il governo indichi invece le linee guida di un Piano per il riassetto funzionale del Paese e avvii il processo di sua costruzione –la metodologia UE di revisione delle reti TEN-T soprarichiamata sarebbe un’ottimo punto di partenza. Un anno, anche due, di lavoro, garantito da un largo sostegno parlamentare, dovrebbe produrre il Piano degno di questo nome. Per mostrarlo all’Europa, ma soprattutto per avviare davvero a soluzione i molti nodi strutturali che affliggono l’Italia. Alla fine ne risulterebbe una nuova Nota Aggiuntiva come quella con la quale Ugo La Malfa aprì nel 1962 una stagione di ordinaria programmazione che allora ci pareva poca cosa, ma che oggi è oggetto di rimpianto, almeno per gli italiani della mia generazione.
*Minsitro dei Lavori Pubblici 1996-98
Presidente Commissione
Trasporti del Parlamento
Europeo 2003-2009
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