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Marco Rizzo, leader di Democrazia sovrana e popolare

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Un nuovo populismo si aggira per l’Europa e somiglia all’assalto di Capitol Hill: accolgono tutti e il loro raduni sono sempre pieni

C’E’ un nuovo populismo che si affaccia sulla scena politica in Europa e in Italia, in confronto al quale i seguaci di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio oggi apparirebbero come anime belle. Chi sono? Si fa prima a dire chi non sono. Non sono né di destra, né di sinistra, non amano i partiti né le piattaforme web, odiano il politicamente corretto, «dialettica ipocrita di cui liberarsi». Vogliono conquistare «le fortezze dall’interno» e strizzano l’occhio a chiunque protesti: oggi ai trattori che bloccano le strade europee dalla Romania all’Islanda, alla Francia. Domani chissà: l’importante è stare nell’altra metà campo. Che si chiamino gilet gialli o forconi, poco importa: tutto fa brodo.

IL PARTITO BIFRONTE DEL POPULISMO

Populismi diversi che si stanno alleando nel nuovo populismo in Europa. Come? Sabato scorso si è tenuto a Roma il congresso fondativo di Democrazia sovrana popolare (Dsp). Il risultato di una chimica esplosiva. Il leader fondatore è Marco Rizzo, ex eurodeputato torinese di 64 anni, «figlio di operai», rivendica tutte le volte che può. Ma se fino a qualche tempo fa incarnava alla perfezione il ruolo del comunista trinariciuto, testimone di se stesso e della sua caparbia identità, ora le cose sono cambiate. Insieme a Francesco Toscano, un avvocato di estrazione cattolica, proprietario di una piccola emittente televisiva, uno che ha conosciuto il suo momento di gloria lottando contro un certificato (il green pass), si è lanciato in questa avventura che richiede anche un certo esborso economico. Ne è nata una creatura antropologicamente bifronte, dove indifferentemente si accolgono tutti. Fascisti, comunisti, anarchici, ex leghisti, ex grillini, orfani della Dc, no Vax e no Tav. Un esercito di “scappati di casa” verrebbe da dire, se non fosse che i loro raduni sono sempre strapieni e una casa forse la stanno trovando. Ci sono il leader della rivolta dei trattori Stefano Zucchi, il presidente della Confimi, Paolo Agnelli, Francesco Amodeo, il quale, reduce dalla disastrosa esperienza di Italexit, non ha perso però il senso dell’ironia («con quel nome i nostri elettori pensavano che volessimo uscire dall’Italia… non dall’Europa). E ancora: Pino Cabras, ex grillino, fuoriuscito anche dal suo movimento (Alternativa); Stefano Orsi, geopolitico, uno dei pochi ai quali si può dire putiniano senza timore di essere smentito; monsignor Carlo Maria Viganò, 83 anni, ex inquilino del superattico con affaccio su San Pietro, l’iniziatore del caso Vatileaks, l’accusatore di cardinal Bertone, fustigatore delle coppie gay che Papa Bergoglio vorrebbe benedire.

Di tutto e di più: un paio di ambasciatori amici e persino un generale di Corpo d’armata (Fabio Mini). Certo, qualcosa dal grillismo questi “rossobruni” dovevano pur prendere. Per esempio – tanto per cambiare – che «i veri nemici» restano i giornalisti, in primo luogo «i direttori dei giornali e dei telegiornali» (così parlò Marco Rizzo).

OCCIDENTE (ED EUROPA) MALE ASSOLUTO DEL POPULISMO

Eppure, quando al congresso il tavolo della presidenza ha letto i saluti dei rappresentanti della Repubblica popolare cinese, di Cuba, Venezuela, Bolivia e soprattutto della Federazione russa, la platea della sala dell’Hotel Ergife è esplosa in uno stato di eccitazione collettiva. Applausi per Paesi che non rappresentano certo un fulgido esempio di stampa libera e democratica, che applicano con facilità la censura. Dove non c’è solo l’eventuale conflitto d’interesse, ma l’informazione è controllata per decreto. Applausi che hanno messo in grande imbarazzo persino Gianni Alemanno. Dopo un approccio iniziale che prometteva bene, l’ex sindaco di Roma ha iniziato a prendere le distanze da quello che a lui deve essere sembrato un connubio adulterino. Lo smarrimento dei suoi valori, una perdita di identità, un fascio-comunismo alla Pennacchi. I sovranisti di domani non vogliono essere né pesce né carne.

La rotta è il «multipolarismo», «la globalizzazione incompatibile con la democrazia», la fine degli accordi di Bretton Woods e dell’egemonia Usa. L’Occidente è dunque «il Male assoluto, ha la colpa di tutto, il pericolo principale per il mondo intero». Altro che democrazia da esportare, semmai il contrario: Atlantismo da abbattere. Come? Accelerando la rottura «della già decadente costruzione di Bruxelles». Quando si usano certi termini, “fortezze”, “conquiste”, risalire agli assalitori di Capitol Hill è un riflesso condizionato. Ma qui siamo in Europa, anzi in Italia (dove a sparare casomai sono i deputati), dove si oscilla tra Orban e von der Leyen cercando di tenere insieme tutto e il populismo fa presa lì dove le democrazie danno segnali di debolezza e la crisi economica morde. E dunque da noi più che altrove. L’astensionismo era il primo pessimo indizio, il sintomo di un male profondo che ha scaraventato i ceti medi in uno stato di precariato, disoccupazione e generale impoverimento rispetto alla generazione che li ha preceduti. È il terreno sociale che è stato arato negli Usa da Donald Trump. Il benessere ereditato dai genitori e poi negato, un misto di egoismi diversi, rabbia contro gli ultimi, delusione, spaesamento. In questo stagno del malcontento può pescare solamente chi non ha la licenza del politico di professione.

A nulla è valso, tanto per fare un esempio, il tentativo maldestro di Matteo Salvini di frequentare Palazzo Chigi e al tempo stesso duellare con Ursula von der Leyen. Delle due l’una. Gli anti-europeisti di oggi non sono gli stessi di ieri. Usano altri argomenti: la guerra in atto in Ucraina e in Palestina, l’esperienza drammatica del Covid. Vogliono uscire dall’Europa ma anche dalla Nato e attaccano le multinazionali del farmaco che li ha obbligati a vaccinarsi, non vogliono l’auto elettrica. Chi, come la Lega, è rimasto troppo a lungo nella stanza dei bottoni è contagiata, ha perso ai loro occhi qualsiasi credibilità. Non riuscirà certo a riabilitarsi rispolverando il vecchio spartito della secessione e dell’autonomia differenziata. Idem – ma sostenuto con altri argomenti – l’accanimento contro Fratelli d’Italia. E il Pd? Non pervenuto, lo ignorano perché «tanto si fa male da solo». Il massimo del disprezzo.

ANTISISTEMA ESASPERATO

Sono stati celebrati proprio nei giorni scorsi i 30 anni del berlusconismo, ma sembra passato un secolo dal giorno in cui il Cavaliere attraversò il Rubicone e “scese in campo”. Certe sue affermazioni contro il “sistema” oggi farebbero sorridere. I protagonisti del populismo di oggi in Europa usano ben altro linguaggio, con in più la sconcertante trama di relazioni che questi piccoli gruppi riescono a tessere. Però tranquilli: non siamo ancora alla riedizione di Capitol Hill, quel brodo primordiale che due anni fa generò personaggi come lo “sciamano”, Jake Angeli, il capo carismatico di un gruppo di vichinghi impellicciati che guidò all’assalto del Campidoglio (per poi candidarsi al Congresso in Arizona). Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, è nato solamente 12 anni fa: nei primi anni raccoglieva percentuali intorno al 2 virgola qualcosa. Durante il percorso istituzionale ha perso la sua carica anti-sistema, rinunciato all’integralismo pur restando ancorato a certi valori del post-fascismo. Nessuno, meglio della nostra presidente del Consiglio, sa che il consenso, a differenza di quanto avveniva in passato, oggi si costruisce e si consuma in un lampo. Chi oggi pensa al Premierato, all’uomo solo al comando, è avvisato.


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