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Benjamin Netanyahu

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L’ANNO nuovo comincia con una doccia fredda per Benjamin Netanyahu: lunedì 1° gennaio la Corte Suprema israeliana ha emesso una sentenza che annulla una parte decisiva della riforma della giustizia che il governo aveva approvato nel luglio scorso, scatenando una lunga serie di proteste e di partecipatissime manifestazioni interrotte soltanto dalla tragedia del 7 ottobre. A dire il vero, le proteste erano iniziate già all’inizio del 2022 ed erano proseguite fino a marzo, quando Netanyahu aveva ritirato momentaneamente la proposta, dichiarando l’intenzione di costruire un consenso più ampio. Ma anche nella versione successiva, più limitata, era rimasta in piedi la norma centrale, quella che prevedeva l’abolizione della “clausola di ragionevolezza”, cioè la possibilità della Corte Suprema di intervenire sui provvedimenti amministrativi approvati dal governo Netanyahu e di abolirli se li ritiene in qualche modo “irragionevoli”.

In generale, la riforma aveva l’obiettivo di limitare fortemente i poteri della Corte Suprema che i partiti di destra criticavano da tempo ritenendola titolare di poteri di controllo troppo ampi sul potere legislativo. Con la sentenza di lunedì la clausola di ragionevolezza viene reintrodotta: la Corte Suprema si è espressa a riguardo con una maggioranza di 8 giudici su 15 e nelle motivazioni della sentenza il giudice Isaac Amit ha scritto che “lo Stato di Israele ha bisogno di rafforzare la sua componente democratica”, e che la misura approvata dal governo Netanyahu “andava nella direzione opposta, e cioè rafforzava il potere del suo organo esecutivo”. Il progetto di riforma, per mesi al centro dei dibattiti politici in Israele, è passato in secondo piano dopo gli attacchi senza precedenti subiti da Israele il 7 ottobre. Il resto della riforma è stato accantonato per via della guerra, ma la norma che limitava i poteri della Corte Suprema restava l’elemento centrale della gravissima frattura politica del paese.

Gli israeliani laici e progressisti considerano la Corte l’unico vero bilanciamento contro eventuali derive autoritarie del governo, dato che il paese non ha una Costituzione: il sistema legale israeliano si basa sulla common law e benché la dichiarazione d’indipendenza israeliana affermava che sarebbe stata scritta una costituzione formale, la redazione di questa è stata continuamente posticipata fin dal 1950. La destra religiosa e nazionalista ritiene invece che le sentenze della Corte siano spesso di natura politica, e vengano decise per ostacolare l’attività del suo governo.

Ecco perché la sentenza rischia di gettare nello scompiglio il governo di emergenza nazionale israeliano, oggi sottoposto alla pressione internazionale per il bombardamento di Gaza. “La decisione dei giudici della Corte Suprema di pubblicare la loro sentenza nel mezzo di una guerra è l’opposto dello spirito di unità di cui abbiamo bisogno in questi giorni affinché le nostre truppe possano avere successo al fronte”, ha dichiarato Yariv Levin, il ministro della giustizia israeliano considerato l’architetto della riforma. L’accusa all’Alta Corte di seminare divisioni e la promessa di tentare di nuovo l’approvazione del pacchetto di leggi controverse mostrano ancora una volta la deriva del governo Netanyahu, sostenuto da forze fondamentaliste e reazionarie che vogliono trasformare Israele in uno stato ispirato dal nazionalismo religioso. Gli oppositori, che hanno una visione più laica e pluralista, accusano il governo di mettere in pericolo la democrazia.

Che cosa succederà adesso? Netanyahu e il suo governo rispondono alla sentenza della Corte suprema facendo nuovamente appello all’unità e sfruttando il tempo di guerra per minimizzare la sconfitta. La strategia del premier israeliano è ovviamente quella di rimandare tutti i dissidi a “dopo la guerra”, che così diventa una sorta di salvacondotto per la sua sopravvivenza politica. In più, è abbastanza improbabile che la sentenza della corte, per quanto importante, possa avere un impatto anche minimo sulla condotta della guerra. Tuttavia, il ruolo di contrappeso democratico della corte e le modalità di conduzione della guerra contro Hamas sono più collegati di quanto possa sembrare perché contribuiranno in ogni caso alla definizione della identità politica del paese nel prossimo futuro. La decisione della Corte è centrale per garantire che Israele rimanga una democrazia fiorente, il che è vitale sia per i cittadini israeliani che per gli alleati occidentali. Allo stesso modo, riuscire a conciliare l’autodifesa dal terrorismo islamico con il rispetto del diritto internazionale e dei diritti dei popoli è cruciale per non trasformare Israele in uno stato criminale. Resta il fatto che tutti gli israeliani, di destra e di sinistra, confidano nel successo contro Hamas per riaffermare il diritto alla sopravvivenza dello stato ebraico e per mantenere il ruolo del proprio paese come presidio di sicurezza per gli ebrei di tutto il mondo.

Lunedì scorso, le forze di difesa israeliane (Idf) hanno pubblicato nuovi video degli interrogatori di sospetti terroristi palestinesi catturati dalle truppe nella Striscia di Gaza, che descrivono in dettaglio l’uso dei civili da parte di Hamas come copertura per operazioni terroristiche. Fin dall’inizio del conflitto, Israele ripete che Hamas utilizza i civili come scudi umani in diverse situazioni: quando localizza basi operative sotto gli ospedali, quando lancia razzi da scuole e rifugi, quando costruisce tunnel sotto le camerette dei bambini o le loro classi o le corsie degli ospedali, quando nasconde e immagazzina le armi dentro le scuole. Negli interrogatori di questi giorni anche i terroristi di Hamas catturati confermano questi sospetti e ammettono che confidavano nel fatto che Israele non avrebbe preso di mira le strutture sanitarie, scolastiche e civili. Nei giorni scorsi l’Idf ha pubblicato dei video con le dichiarazioni di agenti di Hamas che confessano l’abitudine dei militanti islamici a nascondersi tra i civili rifugiati nei centri medici. Chi si opponeva veniva minacciato e ridotto al silenzio. Un detenuto nelle mani dell’Idf di nome Muhammad Darwish Amara, identificato come membro del gruppo terroristico palestinese della Jihad islamica, ha raccontato che una ventina di combattenti di Hamas hanno preso il controllo della sua casa e non hanno esitato a piazzare cecchini e armi nelle stanze dove si trovavano i suoi figli. Né hanno esitato a piazzare ordigni vicino alle case dei civili minacciando di fare saltare in aria coloro che si fossero opposti.

Intanto il ministero della Sanità di Gaza, guidato da Hamas, afferma che più di 20 mila persone sono state uccise nella Striscia durante la guerra, una cifra non verificata che non fa distinzioni tra combattenti e civili e non tiene conto di coloro che sono stati uccisi come conseguenza delle azioni dei gruppi terroristici. Secondo le stime israeliane, dall’inizio della guerra le truppe hanno ucciso circa 8.500 agenti terroristici. E l’obiettivo è quello di concepire attacchi sempre più mirati per ridurre al massimo l’uccisione dei civili.


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