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Il caso Reggio Calabria, il rientro del sindaco Giuseppe Falcomatà, il nodo della Giunta e l’autogol del centrosinistra dopo due mesi di schermaglie

“Non sono don Abbondio” ha detto il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà alla fine di un Consiglio comunale nel quale tutto è andato liscio, la maggioranza era presente e, dopo oltre mezzo secolo, il vecchio Piano regolatore è stato sostituito dal Psc (Piano strutturale comunale), il nuovo strumento urbanistico. Molti hanno visto nelle sue parole solo una citazione colta, ma dietro ai Promessi Sposi stava per scatenarsi una nuova e acutissima fase dello scontro che da due mesi vede il sindaco e la sua maggioranza schierati su fronti contrapposti.

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Sembrava ci fosse l'”accordone” e che il sindaco avrebbe messo mano al rimpasto con il bilancino tarato al meglio tra lui e il segretario regionale del Pd, Nicola Irto; sembrava che il 2 gennaio si sarebbero rivisti per chiudere una nuova intesa. Invece, Falcomatà ha rovesciato il tavolo, ha detto che la Giunta la risistema come vuole lui e che non prende ordini dal partito. Non sarà facile rimettere le cose a posto.

“E adesso ricominciamo” aveva detto Falcomatà il 25 ottobre scorso quando la Corte di Cassazione decise di assolverlo dal reato di abuso d’ufficio che l’aveva tenuto due anni lontano dai suoi compiti di primo cittadino. Cos’altro doveva dire, immaginando che la sua compagine politico/amministrativa avrebbe fatto i salti di gioia e avrebbe salutato il ritorno del sindaco alla guida con un impegno straordinario sui problemi della città?

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Invece, nulla o quasi. Sono stati due mesi abbondanti di scontri e trattative tra il sindaco e la sua maggioranza su una questione di poltrone che pochi a Reggio saprebbero riassumere e pochissimi saprebbero dire chi ha ragione. C’è stata addirittura, il 12 dicembre scorso, una sceneggiata in Consiglio comunale con i consiglieri di maggioranza che non si sono presentati in aula per mettere in difficoltà il sindaco e fargli capire che doveva scendere a patti. Falcomatà, a giudicare da quello che è successo oggi, se l’è presa molto più di quanto abbia dato a vedere in quei giorni.

“Ai miei tempi – borbottava davanti agli scranni vuoti un vecchio militante del Pci, ora nel Pd – li avrebbero buttati tutti fuori dal partito”. Appunto, ai tempi del signore in questione, c’erano partiti che rappresentavano tanta gente e avevano radici forti nelle città. Sceglievano i candidati sindaci (a volte sbagliavano anche) e poi li sostenevano a spada tratta durante tutti i cinque anni di legislatura. Se qualcosa non andava, il segretario provinciale chiamava il sindaco nel suo ufficio (non andava a trovarlo perché non stava bene) e gli spiegava con le buone o le meno buone i problemi che c’erano, i segnali negativi che arrivavano dalla cittadinanza e che il partito aveva captato con le sue lunghe e sensibili antenne. Il sindaco tornava a palazzo e si comportava di conseguenza sapendo che, comunque, il partito (almeno di cose gravissime) non l’avrebbe mai sbugiardato in pubblico.

Oggi, invece, i partiti hanno pochi iscritti, radici poco profonde, antenne mezze rotte e il meccanismo elettorale basato sull’elezione diretta del sindaco non li aiuta. Nel 2014, Falcomatà venne eletto al primo turno col 61%. Lo sostenevano ben undici liste: bei nomi (ReSet, A testa alta, Cambiare Reggio…) pieni di aspettative e di voglia di fare. Nel 2020 il sindaco rivince al ballottaggio (58,4%), le liste sono di nuovo undici, i nomi restano belli. Ma qualcuno saprebbe dirci che differenza c’è, sul piano politico, tra “S’intesi”, “Innamorarsi di Reggio”, “Reset” e il Pd? Una volta chiunque sapeva cosa aveva da dire il Pci, cosa il Psi e cosa la Dc.

Il risultato è che se il sindaco viene eletto direttamente dai cittadini con il sostegno di partiti e liste più o meno fantasiose, è lui che deve prendersi la responsabilità della composizione della Giunta e della politica comunale. Se i partiti hanno qualcosa da dire sul merito devono farlo in Giunta, in Consiglio comunale e con gli altri mille strumenti che la vita cittadina e la democrazia mettono loro a disposizione.

Se un sindaco sta via un anno per abuso d’ufficio (sfido a trovare un sindaco in Italia che non commetta un giorno sì e l’altro anche, quel reato) e poi ritorna assolto, è lui che deve decidere il da farsi. Chi pone questioni di poltrone da pesare col bilancino in questa situazione, rischia grosso. Chi abbandona l’aula per mettere in difficoltà il sindaco, commette un grave errore. Perché è difficile far capire alla città che si approva il Piano strutturale comunale (Psc) dopo messo secolo e si ricomincia a fare assunzioni in Comune dopo 25 anni ma che il sindaco sta sbagliando a darci solo due delle tre poltrone che abbiamo chiesto. Ai vecchi tempi, il segretario provinciale del grande partito di cui sopra, sarebbe stato zitto e avrebbe ribadito pubblicamente che il “nostro sindaco sta facendo benissimo”.

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