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Udienza del processo ’Ndrangheta stragista

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IL gip di Milano Tommaso Perna la pensa diversamente, ma la pm Antimafia Alessandra Cerreti non ha dubbi sull’unitarietà dell’associazione mafiosa lombarda costituita da esponenti di diverse componenti – ‘ndrangheta, cosa nostra, camorra – consorziate in un sistema confederativo orizzontale, all’interno del quale i vertici delle tre organizzazioni criminali assumono ruoli e poteri paritari.

Il collante è economico e discende dalla massimizzazione dei profitti derivanti da tutta una serie di operazioni finanziarie peraltro al centro di una ventina di summit con la partecipazione delle tre componenti. Ma quello che, secondo gli inquirenti, rappresenta un unicum a livello nazionale, perché per la prima volta cosche delle tre mafie tradizionali avrebbero deciso di consorziarsi in un’unica struttura associativa, ha un precedente. Sempre in territorio lombardo.

Non a caso nella sentenza del processo “’Ndrangheta stragista” vengono valorizzate le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia che collocano il consorzio, ovvero un’unione delle famiglie mafiose d’Italia, già all’inizio degli anni Ottanta tant’è che le prime riunioni sulla svolta stragista si sarebbero tenute proprio in Lombardia.

Salvatore Annacondia, per esempio, già al vertice, a partire dagli anni ’80, di una organizzazione tra le più potenti che esistevano nel Nord barese che operava a Trani e provincia, ha svelato che Franco Coco Trovato, uno dei capi della ‘ndrangheta lombarda, era molto legato a Jimmi Miano che operava a Milano ed ha aggiunto che non vi era gruppo in Italia che non avesse legami con i calabresi.

La ‘‘ndrangheta era definita da Annacondia come una “grande mamma” che abbracciava tutti i gruppi che operavano sia in Italia che all’estero ed era la più potente al mondo. «Si trattava di un “Consorzio”, termine con cui si può definire l’unione tra tutte le famiglie mafiose di Italia».

In tempi più recenti il pentito reggino Antonino Fiume, che ha fatto rivelazioni sull’organigramma della potente cosca De Stefano e la ‘ndrangheta unitaria, ha affrontato anche il tema delle “riunioni” in cui si discusse della proposta stragista di Cosa Nostra, le prime delle quali sarebbero avvenute proprio in Lombardia dove si era costituito tra il 1986 ed il 1987 una sorta di consorzio, ossia un organismo riservato che esercitava «un potere, era il potere assoluto che dominava su tutti, perché all’interno c’era ‘ndrangheta, cosa nostra, camorra e sacra corona unita».

Una sorta di “federazione”, dunque, che allora aveva il controllo sul contrabbando delle sigarette e sul traffico di droga. Fiume ha esplicitato al riguardo che «questo consorzio aveva il monopolio di tutto lo stupefacente che girava in Italia, lo dovevano comprare solo ed esclusivamente da loro, venderlo come volevano, però dovevano comprarlo solo dal consorzio tutti gli affiliati.

Chi trasgrediva, veniva ucciso. Determinati omicidi e determinate cose venivano scelti solo dai capi del consorzio, che per riconoscersi… utilizzavano… avevano tutti lo stesso bracciale, che altro non era che un bracciale composto da fili di elefanti, che rappresentava Catania… un lingotto d’oro tatuato della ‘ndrangheta, e adesso non mi ricordo bene, però il capo del consorzio non aveva il bracciale, aveva il girocollo, che era fatto allo stesso modo, che ce l’aveva Antonio Papalia, che in un momento storico, che non c’era, glielo aveva lasciato pure a Giuseppe De Stefano. E io gli ho detto: “Questo coso restituirglielo”. Cioè, era un rito, come dire, se li mettevano sul tavolo, c’era qualcuno delegato del consorzio, poteva parlare solo se aveva questo bracciale o il girocollo».

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Al vertice Fiume indica appunto Papalia, il quale «col triumvirato della Jonica, era stato messo a Milano, e sulla Lombardia era lui che controllava tutto, però erano in buoni rapporti con tutte le altre organizzazioni, lui era il punto di riferimento».

Mentre Coco Trovato (consuocero di Carmine De Stefano) era un gradino sotto nel senso che l’ultima parola spettava a Papalia. Analogie tra consorzio vecchio e nuovo: anche allora la componente ‘ndranghetistica era quella numericamente prevalente e ne facevano parte, tra gli altri, sempre secondo il pentito, «Gimmi Miano e Turi Cappello (i quali erano dentro proprio come se fossero calabresi, anche se siciliani), Pepè Flachi, Annacondia della Puglia che sapeva essere chiamato “manuzza”, gli Arena di isola Capo Rizzuto, i Ficarelli (specificando Vincenzo Ficara), Mico (Domenico) Tegano che però non presenziava su Milano, i Latella con Giovanni Puntorieri, Mico Paviglianiti che aveva un ruolo importante, Schettini, Salvatore Pace (un riservato di Antonio Papalia), Vittorio Foschini, e Luigi Mancuso».

Fiume ha svelato anche che «molte riunioni del consorzio avvenivano a Monza, in un albergo, a Limbiate, che era di proprietà di un amico di Antonio Papalia, altre avvenivano presso un autolavaggio che era di un parente di Pepè Flachi e altre ancora a Olginate, a casa dell’amante di Totò Schettini».

In seno al consorzio si sarebbero decisi omicidi, tra cui quello del figlio del boss Raffaele Cutolo e della guardia carceraria Umberto Mormile. Fiume, riferendosi al delitto Mormile, ha parlato anche della rabbia di Coco Trovato perché era stata lasciata l’arma sul posto, svelando che i Servizi segreti erano certamente i mandanti di questo omicidio e che «il consorzio, all’interno delle carceri, avevano stabilito che si doveva pentire tutto il gruppo… Poi, ad un certo punto, avevano fatto finta di collaborare, e scagionando l’uno e l’altro». Il delitto Mormile viene peraltro affrontato nella parte della sentenza relativa alla cosiddetta Falange armata. La Falange Armata, in realtà, non esiste. Non è mai esistita. Ma la sigla fu utilizzata anche per depistare le indagini sugli attentati ai carabinieri in Calabria nell’ambito di una strategia volta ad impedire che fossero immediatamente ricondotti alle mafie.

Quello che colpisce è che, esattamente come si faceva, a quanto pare già a partire dagli anni ’80 in Lombardia, quando erano stati avviati tra le varie organizzazioni criminali intensi rapporti di collaborazione che avevano ad oggetto traffici illeciti di varia natura soprattutto in materia di droga, gli odierni indagati, nel riferirsi al sistema mafioso lombardo di cui farebbero parte, utilizzano analogamente il termine “consorzio”.

L’11 settembre 2020, Massimo Rosi, presunto nuovo reggente del “locale” di ‘ndrangheta di Legnano e Lonate Pozzolo, articolazione al Nord della cosca Farao Marincola di Cirò, afferma, mentre discorre con i propri familiari, di essere in possesso di denaro proveniente dal «consorzio di Gioacchino (Amico, imprenditore siciliano ritenuto il fulcro della presunta super associazione mafiosa nel Milanese, ndr)». «E poi io oggi alle tre dovrei andare a prendere altri 10mila euro così, male che vada vuoi farlo già tu… sei capace a usare la macchinetta del sotto… dentro la borsa termica c’è dentro il sacchetto con tutti i soldi…omissis… E dobbiamo metterli sotto vuoto così dopo li metto via li nascondo, dove devo nasconderli».

L’8 settembre 2020, negli uffici della Servizi Integrati di Daiargo, Amico, tra l’altro, affermerebbe di aver autorizzato l’utilizzo di 50 milioni di euro di un non meglio specificato consorzio sostenendo che Giuseppe Fidanzati, esponente della componente palermitana, ne avrebbe condiviso l’iniziativa («i 50 milioni di euro del consorzio, io, li ho autorizzati. Io… e te lo faccio dire da cristiani come te… E ti faccio parlare da Ninni [ndr Giuseppe Fidanzati] o da Nino [ndr Antonino Galioto] no, lascia stare che è parente con me»).

Il 30 settembre 2020, parlando del napoletano Giancarlo Vestiti, Amico precisa che il “consorzio” versa 1600 euro per il suo mantenimento e aggiunge che lui sta provvedendo anche al pagamento del legale. Il 5 marzo 2021, Emanuele Gregorini alias Dollarino, emissario dei Senese, clan di camorra stanziato a Roma, riferisce di essere in Lombardia in qualità di rappresentante del gruppo perché il giorno seguente dovrà recarsi a Milano per verificare questioni legate al “consorzio”. Per gli inquirenti è l’ulteriore conferma della unitarietà del sistema mafioso lombardo e della stabilità del vincolo associativo il fatto che le tre componenti criminali si siano fatte “autorizzare” dalla rispettiva “casa madre”.

Amico direbbe: «abbiamo costruito un impero e ci siamo fatti autorizzare tutto da Milano …(incomprensibile)…passando dalla Calabria da Napoli ovunque… Napoli c’ho avuto a che fare io». Sarà uno degli argomenti su cui si incentrerà il braccio di ferro davanti al Tribunale del riesame, poiché la Dda di Milano ha annunciato ricorso dopo che a fronte di 154 misure cautelari ne sono state disposte 11 e non è stata riconosciuta l’associazione mafiosa.

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