X
<
>

Giorgio Napolitano brinda insieme alla moglie Clio

Share
5 minuti per la lettura

HA SMESSO di scalare la sua “montagna incantata”, Giorgio Napolitano, a 98 anni. In vita volle testimoniare il proprio debito verso Thomas Mann “per la profonda riflessione sul rapporto tra politica, cultura e democrazia”, al punto da scrivere il saggio introduttivo dell’ultima edizione dei “Moniti all’Europa” in cui Mann aveva immaginato il vecchio continente integrarsi nella libertà e nella democrazia.

LEGGI IL RICORDO DEL DIRETTORE ROBERTO NAPOLETANO

Ha sognato anche il vecchio riformista italiano che per 9 anni è stato presidente della Repubblica. Non aveva neppure immaginato di essere “richiamato in servizio, quando nel 2005 Giorgio Napolitano scrisse la sua autobiografia politica “Dal Pci al socialismo europeo”. In quelle pagine si ritrova la concezione della politica già espressa da Mann: “Non potrà mai spogliarsi del tutto della sua componente ideale e spirituale, mai rinnegare completamente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura”. È così che Napolitano visse la candidatura al Quirinale, avendo “come sola bussola il rispetto dei principi e degli equilibri costituzionali”. Era il comunista italiano che non rinnegava le sue origini ma rivendicava il ruolo del Pci nella costruzione della democrazia italiana, riconoscendo abbagli ed errori (come per l’avallo all’Invasione russa dell’Ungheria nel ‘56) e pagando non pochi prezzi politici per il suo impegno riformista ed europeista. Soprattutto era la candidatura dell’uomo delle istituzioni (era stato presidente della Camera, ministro dell’Interno, presidente della commissione costituzionale del Parlamento europeo) e non del solo centrosinistra, che semmai si proponeva di allargare i consensi per la candidatura nello schieramento avverso. 

Non andò propriamente così, ma non per questo Giorgio Napolitano rinunciò a esercitare quel primo mandato come “moderatore e garante di una corretta dialettica istituzionale”. Tanto da trovare lo schieramento politico più largo nella rielezione, per la prima volta nella storia repubblicana, quando i guasti delle conflittualità politiche misero in evidenza prima l’impossibilità di formare un governo, e poi – con lo sgambetto di tanti a Franco Marini e il sabotaggio interno al centrosinistra della candidatura di Romano Prodi – la impraticabilità della elezione di un nuovo Presidente della Repubblica.  Napolitano dovette caricarsi sulle spalle il logoramento della seconda Repubblica. Lo fece con lo stesso impulso con cui aveva cercato fino ad allora di ricomporre le lacerazioni storiche del Paese.

Nel “giorno della memoria” del 2009 comprese nel triste elenco della strage di piazza Fontana a Milano, considerata “madre di tutte le stragi”, anche Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico, morto in Questura, e il commissario Luigi Calabresi, assassinato in un agguato terrorista, invitando al Quirinale e rendendo omaggio a entrambe le vedove, Licia Pinelli e Gemma Calabresi. Del resto, Napolitano aveva voluto la pubblicazione di una sorta di enciclopedia di tutte le vittime degli “anni di piombo”, con il fattivo contributo di Loris D’Ambrosio, il consigliere giuridico vittima di un infarto nel fuoco delle polemiche sulla distruzione (come poi fu deciso dalla Corte costituzionale) della registrazione di una ordinaria telefonata tra il Capo dello Stato e l’ex presidente del Senato Nicola Mancino. Nè fu meno tormentato il rifiuto opposto all’allora premier Silvio Berlusconi di emanare un decreto legge per fermare la sentenza di un magistrato sul caso Englaro.  Ma, per il crociano Napolitano, lo strappo più traumatico era quello tra un Nord produttivo a un Sud assistenzialista, al punto da dedicare a questa missione il 150mo anniversario dell’Unità d’Italia.

Una volta ad Aosta richiamò una espressione “molto forte” del prof. Salvatore Cafiero, che era stato presidente della Svimez: “Uno Stato il quale sia nato con la missione di unificare il paese e non ci sia riuscito per questo aspetto cruciale, deve considerarsi che abbia fallito la sua missione storica”. Non concedeva nulla a certe degenerazioni ma giudicava “grottesca” l’idea, allora propagandata dalla Lega, della secessione da parte di una sorta di Stato Lombardo-Veneto, o Padano che dirsi voglia. Proprio dalla sua Napoli avvertì: “Si può strillare in un prato ma non si può cambiare il corso della storia. Il popolo padano non esiste”. Nè meno duro fu nei confronti del populismo con cui Beppe Grillo alimentava il M5s. Dopo il successo delle amministrative del 2012, che prefigurava quello alle elezioni politiche, ai giornalisti che gli chiedevano del “boom di Grillo”, il presidente rispose in modo tranciante: “Di boom ricordo solo quello economico degli anni 60”. Ne ricavò l’insulto di “Morfeo”. Eppure fu Grillo a doversi scuotere quando accompagnò i capigruppo pentastellati al Quirinale per le consultazioni. Prese di posizione così nette,e scelte difficili come quella dell’incarico a Mario Monti mentre lo spread bruciava i titoli di Stato italiani, hanno lasciato qualche strascico, incomprensioni e polemiche che sanno di retaggio ideologico.

Resta sempre la metafora di Mann a rivelare, insieme all’aspirazione, anche l’amarezza del percorso del politico di Giorgio Napolitano, un percorso rimasto, purtroppo, incompiuto. Quale fosse l’ambito traguardo, Napolitano lo ha sempre dichiarato apertamente. Come quella volta al meeting di Comunione e Liberazione (il 21 agosto 2011 a Rimini), quando rilevò come “il prezzo che si paga per il prevalere – nella sfera della politica – di calcoli di parte e di logiche di scontro sta diventando insostenibile. Una cosa è credere nella democrazia dell’alternanza; altra cosa è lasciarla degenerare in modo sterile e dirompente dal punto di vista del comune interesse nazionale”. E una volta rieletto, come ha ricordato il prof. Francesco Clementi, disse alla Commissione di esperti che avrebbe dovuto far avanzare la sua intuizione di un lavoro preparatorio, che “riforme, modifiche, adeguamenti e ripensamenti dell’ordinamento della Repubblica rappresentano un inconfutabile e ineludibile bisogno”. L’assillo spiega perché avesse lanciato – lui parlamentarista in Parlamento – l’invettiva al momento della reinvestitura. E anche l’amarezza del congedo, un paio di anni dopo il secondo mandato, certo per l’avanzare dei malanni dell’età, ma anche per i continui sussulti della spinta riformatrice.

Poco tempo fa Giuliano Amato aveva ringraziato l’ex presidente  per il silenzio che si era imposto negli ultimi anni. “E’ il massimo di benevolenza  – diceva su Repubblica – che la nostra indomita incultura può aspettarsi da lui”. Questa “incultura” ha da riflettere sulla ragione politica di una vita che ha incrociato la storia della Repubblica.


La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.
Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  
Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.
ABBONATI AL QUOTIDIANO DEL SUD CLICCANDO QUI.

Share

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE