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Cesena, 22 lug. (askanews) – Stefano Bonaccini lo ha ripetuto fino allo sfinimento (“guai a dividerci tra noi”, “non vogliamo indebolire la segretaria”, “questa non è una corrente”) e non c’è motivo di non credere alle sue parole. Ciononostante, la kermesse di “Energia popolare”, l’area politico-culturale (così la definisce) che fa riferimento al presidente del Pd e che rappresenta la minoranza uscita sconfitta dal congresso del febbraio scorso, ha segnalato con vigore che le divergenze di vedute politiche con la segreteria Elly Schlein sono forti e numerose, nonché i malumori che serpeggiano tra alcuni membri della minoranza. Il fil rouge dello scontento riguarda, in estrema sintesi, le idee riformiste, che in molti sentono minacciate dal nuovo corso del partito.
Oggi l’intervento più “duro” nei confronti della nuova gestione è stato quello del presidente del Copasir Lorenzo Guerini: “Io la dannazione della memoria – ha detto Guerini riferendosi agli strali incessanti della nuova segreteria contro l’ex segretario ed ex premier Matteo Renzi – non riesco più a tollerarla, non porta il partito a guardare il futuro. Sono d’accordo sul dire, come fa Stefano Bonaccini, che non bisogna segare il ramo su cui siamo seduti, ma io ho preoccupazione per l’albero, a partire delle sue radici”, perché se alcune radici col tempo nuovo” si ritiene che possano “essere tagliate, allora rischiamo di far cadere l’albero”.
Più “conciliante” Delrio, anch’egli di provenienza “renziana”, che ha usato una metafora alpinistica: “Siamo tutti attaccati alla stessa corda, non si taglia la corda al capo cordata, ma spesso da sotto vedi se il capo cordata sta prendendo la via sbagliata, se si sta mettendo sotto un tetto e dobbiamo avere la libertà di dirlo perché se va sotto un tetto precipita lui e ci trascina tutti giù”.
Ma posizioni più “estremistiche”, e probabilmente più indicative dello stato d’animo di molti dirigenti e militanti del Pd, erano state espresse ieri, da esponenti minori. Tra tutti, l’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, assolto dopo sette anni dalla Cassazione per il reato di turbativa d’asta, il quale aveva denunciato tra gli applausi scroscianti, e alla presenza della Schlein, una “subalternità culturale sulla giustizia che proprio non mi va giù”, e sul tema del giustizialismo era arrivato ad evocare nientepopodimeno che Bettino Craxi (“Quando un magistrato si mette a dare la caccia ad una persona e non ad un reato, è un grave errore, e lo dico pensando alla vicenda di Craxi”), mentre da imprenditore aveva invitato a riflettere sulla bontà del Job Act renziano (“Se non ci fosse stato avrei fatto fatica ad assumere”), sottolineando infine, senza giri di parole, “l’infantilismo post-renziano” che sembra aver colpito la nuova dirigenza.
Parole dirompenti, tanto che oggi il senatore Alessandro Alfieri, membro della segreteria e componente di “Energia popolare”, ha voluto precisare che “gli applausi di ieri a Uggetti non erano, come ha scritto un giornale, applausi a Craxi ma a una persona che ha subìto per sette anni quello che ha subìto”.
Poi con Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo e padre nobile del Partito democratico, che ha toccato soprattutto temi di geopolitica, si è volato alto. Il professore ha parlato della necessità del riformismo, “indispensabile nella situazione attuale” italiana e mondiale, “accompagnato da una certa necessità di un radicalismo che in famiglia, fino a poche settimane fa – ha detto riferendosi con tutta probabilità alla scomparsa dell’amata moglie Flavia -, avremmo definito ‘radicalismo dolce’. Il Pd ha ancora la possibilità di essere perno di questa trasformazione, ma può farlo – secondo Prodi – solo con uno spirito unitario, condizione affinché possa ritornare a essere guida della nostra Italia”.
E così Bonaccini, nelle sue conclusioni, ha avuto strada facile per evocare un ritorno alla vocazione maggioritaria di veltroniana memoria. “Abbiamo bisogno che il nostro riformismo torni a essere popolare e di popolo, ma anche che la nostra radicalità non diventi settarismo, elitarismo e massimalismo, perché – ha spiegato il presidente del Pd – un grande partito sa riconoscere tutte le minoranze e difende strenuamente i loro diritti, ma lo fa parlando, convincendo e provando a rappresentare, però, la maggioranza dei cittadini. È la differenza che separa la testimonianza e il movimentismo dalla vocazione maggioritaria che io non intendo abbandonare e vorrei riscoprissimo. Non che da solo possiamo bastare – ha precisato – ma dobbiamo rappresentare il paese per tornare a governare. Il successo del Pd dipende anche da noi perché – ha scandito – questo Paese non potrà mai avere un’alternativa praticabile se si spegne il motore riformista del Partito democratico”. Come a dire: il riformismo è nel Pd e continuerà ad esserci.
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