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Sergio Chiatto festeggiato dopo una vittoria (sullo sfondo si riconosce la chiesa di Santa Teresa)

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IN ATTESA della ricca iniziativa sul calcio giovanile che si terrà Cosenza il 26 e il 27 maggio abbiamo intervistato Sergio Chiatto, volto noto della città e soprattutto memoria storica del calcio giovanile che negli anni Sessanta e Settanta lo ha visto punto di riferimento per molte generazioni.

Cosa ha rappresentato il calcio per la sua generazione dal punto di vista sportivo e sociale?

«Moltissimo, in termini di aggregazione soprattutto. Ricordo che Cosenza, tra la fine degli anni ’50 e la prima metà degli anni ’60, si caratterizzava per uno sviluppo edilizio caotico e tipologicamente irregolare e, nel contempo, per il progressivo svuotamento con la conseguente emarginazione dei quartieri storici e la mortificazione di quelli ancora periferici, ove era in atto, pressoché esclusivamente, la costruzione di “lotti” di un’anonima edilizia popolare destinata ai meno abbienti. Una sorta di modello di “segregazione residenziale” ch’è stato causa di processi di crescente ghettizzazione e di microcriminalità diffusa. Ebbene, il calcio, specie quello di quartiere praticato sui campetti di periferia, riuscì a tenere desto, ciononostante, il senso di comunità. Campetti improvvisati, erano un po’ dappertutto in città. Nella parte vecchia, per rinsaldare i rapporti dei pochi giovani rimasti. In quella nuova, per coinvolgere e aggregare, ed educare alla buona convivenza. Diversi fortunati, grazie all’abnegazione di dirigenti appassionati e ad una indovinata politica espansiva della Federazione, riuscirono poi ad accedere, con la loro squadra d’appartenenza, al “Santuario del calcio cosentino”, quale fu il glorioso “Emilio Morrone”, ed a misurarsi lì con un calcio più rigidamente regolamentato e quindi dal più forte valore educativo».

Immagino che gli aneddoti e gli episodi impressi nella sua memoria siano tanti. Qual è il suo ricordo più bello di quegli anni?

«Sì, sono tanti, non saprei davvero da dove incominciare. Ho un piacevolissimo ricordo dello scambio degli auguri che ci facevamo in prossimità delle festività natalizie, coi miei ragazzi vestiti con l’abito della festa, l’immancabile panettone e i discorsetti di circostanza. Infatti, quello instaurato al nostro interno, nonostante avessi la fama di “sergente di ferro” (e forse lo ero davvero, almeno in panchina), era un clima molto familiare. Come dimenticare le tante ripetizioni scolastiche impartite (gratuitamente, s’intende) ai frequentatori più assidui della nostra sede (lo scantinato di casa), con tanto di … interrogazioni. Con la soddisfazione dei genitori, naturalmente, i quali venivano spesso a riferirmi in privato sul profitto scolastico e sul comportamento dei loro figli, a dimostrazione di come fosse salda la collaborazione squadra-famiglia. Oppure le passeggiate di gruppo a Corso Mazzini successivamente alle vittorie conseguite sul campo, nella consapevolezza (o solo presunzione?) che venissimo riconosciuti e ammirati. Al di là dell’esito, positivo o negativo, o solo “neutro” che fosse, quello era stato un accorgimento escogitato per rinvigorire in noi un sano orgoglio d’appartenenza con buone ricadute sul “collettivo”. Uno dei ricordi fra i più belli è poi certamente quello che, in procinto di partire per adempiere gli obblighi di leva e d’interrompere giocoforza la mia attività di presidente-allenatore, Mario Palmieri e Franco Giordano, che i miei coetanei ricordano essere stati i massimi esponenti del calcio dilettantistico, regionale il primo, almeno provinciale il secondo, vollero salutarmi invitandomi a consumare una pizza in loro compagnia in un locale dell’immediato Hinterland per ringraziarmi (sic) per tutto quanto avevo dato al “pallone” nostrano. Eravamo in dicembre 1971».

Il calcio di oggi è un’altra cosa. Da tempo lo sport più amato dagli italiani è diventato un business. Immagino abbia riflettuto su questo “deterioramento”.

«Sì, è sotto gli occhi di tutti. E non credo (o almeno, me lo auguro per il bene del calcio) che possa durare ancora a lungo. E’ un andazzo al quale si dovrà metter mano. Da parte della Federazione, prima d’altri. Sono da sempre fermamente convinto che la soluzione debba passare attraverso i settori giovanili delle nostre società, le quali devono avere il coraggio di osare, di schierare, senza troppi tentennamenti, i giovani talentuosi dei loro organici (non mi si fraintenda, i talenti, i tanti talenti, vanno colti ma poi vanno “coltivati” sull’unico banco di prova possibile, ovvero sul campo di gioco, e sperimentati dinanzi al pubblico e alla presenza degli ufficiali di gara). Si otterrebbe un drastico ridimensionamento delle pretese dei “campioni” o presunti tali e di chi ci guadagna sopra lautamente. Tutto dovrebbe passare attraverso una seria programmazione di medio e lungo termine (non avrebbe senso una di più corto respiro)».

Le sue sono parole di un appassionato. Ha continuato in questi anni a seguire il calcio? Tifa qualche squadra in particolare?

«No, salvo casi eccezionali. Abituato com’ero a stare a bordo campo non riesco davvero ad assistere ad una partita dagli spalti (particolarmente da quelli del San Vito, così lontani dal terreno di gioco) o in tv dove la visione è parziale e non mi dà modo di immaginare gli sviluppi dell’azione non avendo contezza della posizione dei giocatori non inquadrati (sarà per una mai doma … “deformazione professionale”?). Ho registrato con gioia la vittoria del Napoli. Sarò contento se l’Inter e le altre nostre finaliste si aggiudicheranno le competizioni europee nelle quali si trovano impegnate, ma solo per amore di patria e naturalmente che il Cosenza non retroceda, anche qui per amor di “campanile”. Peraltro, ho la fortuna di non tifare per nessuna squadra, salvo ad avere qualche simpatia. Il tifo è come l’innamoramento, non fa’ vedere chiaro e quasi mai esprimere giudizi imparziali».

Un ritorno al calcio delle origini, inteso come sport di formazione e baluardo sociale per i giovani, è secondo lei ancora possibile?

«E’ un’utopia, probabilmente, ma bisogna sperarlo. Le giornate celebrative del calcio dilettantistico cosentino del 26 e 27 maggio ispirate dalla Commissione Cultura e Sport del Comune – Presidente il vulcanico Mimmo Frammartino – delle quali mi è stato generosamente affidato il coordinamento, si propongono, particolarmente quella di venerdì 26, di lanciare proprio questo messaggio. Non a caso sono stati scelti a relazionare dei noti educatori. Nella convinzione che la collaborazione tra la famiglia, la scuola e l’associazionismo in genere può favorire una tale possibilità. Accadeva in passato, perché non crederci ancora?».

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